Quando Dorfles inventava il futuro
Oltre l’arte. Aveva 108 anni
Gillo
Dorfles c’è sempre stato, nelle università, nelle gallerie, nei caffè letterari (una volta c’erano), nelle case in cui si discuteva d’arte contemporanea (c’erano). E poiché Gillo era sempre contemporaneo, e spesso un po’ più avanti, di ciò che accadeva nella cultura e nell’arte, nell’insegnamento e nella critica, avevi la strana impres- sione di contemporaneità permanente fra lui, il momento storico e gli eventi. È raro restare annunciatori del nuovo mentre si diventa vecchi, sempre più vecchi. E sempre più protagonisti del nuovo. Due cose ti vengono in mente subito, mentre apprendi la notizia della scomparsa di Gillo Dorfles: la vastità del suo attivismo intellettuale e la vastità della sua vita.
Lo straordinario e cosmopolita Gillo Dorfles – il Grande Testimone, il Maestro dell’Estetica, il Teorico dell’arte: fu tutto e di più – ci ha lasciato ieri mattina: i 108 anni lo aspettavano il 12 aprile. Era nato nel 1910. Il suo cuore ha smesso di battere, per usura del tempo. È morto come avrebbe voluto, nella sua abitazione milanese, bella, un piccolo museo di libri, quadri e oggetti che gli ricordavano luoghi e memorie della famiglia altoborghese, che aveva radici triestine, ma anche genovesi e lombarde. In una recente intervista al C o rr i er e della Sera, ricordava ad Aldo Cazzullo d’aver giocato a bocce con Italo Svevo, di aver frequentato la libreria antiquaria di Umberto Saba. Suo padre, irredentista, era stato confinato a Vienna. La madre lo portò a Genova, non vide l’ingresso degli italiani a liberare la città. Tornò a Trieste e lì frequentò il liceo: fece amicizia con Linuccia, la figlia di Saba, che si fidanzò con Bobi Bazlen: sarebbe diventato il suo Virgilio letterario, gli fece scoprire Kafka, Proust, Joyce. E Freud. Però non fu per questo che si laureò in Medicina e Psichiatria: “N on ostante la passione per l’arte, mi sentivo obbligato a prendere una laurea seria...”. Iniziò a collaborare col Corriere, chiamato da Dino Buzzati. Frequentò il salotto di Olga Veneziani, proprietaria di una fabbrica di vernici sottomarine, dove conobbe il genero Ettore Schmitz (cioè Italo Svevo) e la giovane eccentrica pittrice Leonor Fini. La sua vita fu un continuo incontrare geni e grandi intellettuali. Quando sposò Lalla Gallignani – il cui tutore, dopo la morte del padre Giuseppe, un faentino legato a Verdi, fu Arturo Toscanini – il ricevimento di nozze venne fatto in via Durini, a casa del Maestro, e il viaggio di nozze all’Isolino, l’isola nel Lago Maggiore di sua proprietà.
È STATO un cittadino della Mitteleuropa asburgica e dell’Italia che divenne fascista, che varò le leggi razziali, che si avviava al disastro della guerra e alla guerra civile. La modernità fu l’assillo di Dorfles. Spesso scherzava sul fatto che era coetaneo della Rivoluzione d’Ottobre, “ha aperto le porte a una nuova considerazione del rapporto tra uomo e nazione”, era amico di Lelio Basso, ma non “ho mai sognato che l’Europa divenisse comunista”. Quanto alla libertà d’espressione artistica, “oggi la relazione tra politica e arte è molto meno importante, l’arte ha raggiunto una propria autonomia, ed è un bene”. Il destino gli ha risparmiato il voto di domani, il cui esito probabilmente l’avrebbe addolora- to: ha sempre disprezzato gli “ismi” e i suoi ignoranti condottieri, diceva che erano il male dei popoli. Figuriamoci uno come Salvini.
ODIAVA le frontiere, i muri. Amava vivere nel mondo: gli piacevano le grandi metropoli, “fucine del futuro”: visse a Roma, Parigi, New York, andava spesso a Tokyo, gli piaceva Chicago che preferiva all’insulsa Los Angeles. Lo videro a Mosca, a Istanbul, a Bilbao (museo Guggenheim), a Barcellona. Non perdeva i convegni se riguardavano i suoi infiniti interessi, un tempo voleva diventare anche pittore ma da critico severo si giudicò solo un velleitario dilettante. All’inizio degli anni Cinquanta, depose il pennello e si dedicò agli studi sull’estetica, la filosofia e la critica d’arte. Studiò “le oscillazioni del gusto”. Era pure un fior di polemista. L’analisi del costume contemporaneo, secondo Dorfles, poteva suscitare “ir r i ta z i on i ” (intitolò così un suo sapido saggio del 2010). Chi ha visto Dorfles negli ultimi giorni lo descrive ancora molto attivo, dedito ai suoi studi, ai suoi appunti, ai suoi progetti. Sì, progetti. Ne aveva, e appena poteva ne parlava in pubblico: l’ha fatto, l’ultima volta, all’inaugurazione di una mostra della Triennale, meno di due mesi fa. Certo, l’udito era un problema, ma gli riusciva lo stesso di continuare a essere un esploratore dell’arte e delle sue tendenze, dei suoi riti e quindi dei nuovi miti. Estetica e filosofia da Vico a Wittgenstein. Il made in Italy che ha in Milano la sua capitale, gli deve molto. La sua lunghissima vita ha accompagnato il divenire delle arti, del gusto, della moda. Fu lo sdoganatore del kitsch che pose dapprima in relazione alla cultura (1963) e poi, non a caso in pieno Sessantotto, con il saggio che fu una sorta di manifesto, Kitsch: antologia del cattivo gusto (Gabriele Mazzotta editore, 1968). Dieci anni dopo, con ironia, scrisse Le buone manie
re (Mondadori). Il 5 aprile uscirà il suo ultimo libro: La mia
America( Skyra), dove racconta gli incontri con i più noti studiosi di problemi estetici e critici d’arte. Una sorta di baede
k er sulla società, la pittura, l’architettura, il design e l’estetica d’Oltreoceano. Ci mancherà, accidenti, l’avremmo voluto immortale.