2018, meno donne in Parlamento: è anche colpa nostra
Ieri era la festa della donna, quell’8 marzo amato e contemporaneamente odiato dalle donne stesse. Molte la ritengono una celebrazione inutile, svilita a fini commerciali, utile soprattutto ai floricoltori. Al di là della considerazione che in tante fanno (più che le mimose sarebbe gradito un giorno di vacanza), ne approfittiamo per fare il punto sulle questioni di rappresentanza. Com’è noto l’articolo 3 della nostra
Carta riconosce il principio della parità di genere e nel 2003 è stato rafforzato grazie a una modifica dell’articolo 51: “La Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.” In quest’ottica il Parlamento ha approvato alcune norme, tra cui l’ultima legge elettorale con cui domenica abbiamo votato. Ieri l’Ufficio valutazione impatto del Senato ha diffuso un dossier con numeri che fanno parecchio riflettere. Partiamo dall’alba della Repubblica: in Assemblea costituente le donne erano 21 (ma a loro dobbiamo moltissimo, perché hanno avuto un peso determinante nel dibattito sui diritti sociali). Nella prima legislatura – 1948, esattamente settant’anni fa – su 982 parlamentari le donne erano 49: il 5 per cento. Le deputate erano 45 su 613 (7 per cento), le senatrici 4 su 369 ( 1 per cento). Ci sono voluti trent’anni e 7 legislature per avere più di 50 donne al Parlamento: è accaduto nel 1976. Quota 100 è stata superata nel 1987 e quota 150 nel 2006. Fin qui la rappresentanza. E il potere? “Il cammino verso la parità in questi settant’anni è stato lungo” si legge nel dossier. “Su oltre 1500 incarichi di ministro le donne finora ne hanno ricoperti 78. Non ci sono state donne alla presidenza del Consiglio, mentre le presidenze femminili nelle commissioni parlamentari sono state solo 23”. Abbiamo avuto solo tre presidenti della Camera (Nilde Iotti, Irene Pivetti, Laura Boldrini), una presidente del Senato, che è la seconda carica dello Stato, mai. E oggi? Nella XVII legislatura (quella appena terminata) per la prima volta la compagine femminile a Montecitorio e a Palazzo Madama ha raggiunto il 30,1 per cento. Il Rosatellum con cui abbiamo votato domenica, è stato presentato (soprattutto dal Pd) come un grande progresso per quanto riguarda l’alternanza di genere. La legge in effetti prevede che i candidati nei collegi uninominali vengano posizionati in modo che nessuno dei due sessi sia rappresentato in misura superiore al 60 per cento. Stesso dicasi per i capolista dei collegi plurinominali (nella quota proporzionale ci si può presentare in cinque collegi). Anche all’interno degli stessi listini la legge dispone che i nomi compaiano alternati in base al genere. Ma cosa è capitato? Per aggirare la regola è stato sufficiente candidare una donna che correva in un collegio sicuro all’uninominale capolista in cinque diversi collegi plurinominali, perché lasciasse il suo posto al secondo del listino proporzionale (maschio). Risultato? Non lo sappiamo con certezza perché quel marchingegno infernale di legge ci consegnerà i dati certi chissà tra quanto. Però sappiamo già che siamo su per giù allo stesso punto, quindi il 30 per cento di rappresentanza femminile, addirittura con una leggera flessione a Montecitorio. Qualche settimana prima del voto, in questa rubrica avevamo scritto: “Il prossimo Parlamento avrà una rappresentanza femminile più alta: è un buon risultato. Ma non può bastare”. Non è nemmeno così. E di questo dobbiamo ringraziare chi ha preparato le liste facendo il gioco delle tre carte e purtroppo anche le donne candidate che si sono prestate. Al prossimo giro, diamoci una svegliata.