Ormai lo sport nazionale ha stufato i ragazzi
I ragazzi continuano a iscriversi ai club piccoli o grandi, ma i talenti e gli adulti dilettanti sono sempre meno. La “questione giovanile” è il vero tema della crisi dello sport nazionale per eccellenza
“Negli ultimi 7 o 8 anni qualcosa si è rotto: una volta smesso, i ragazzi non ne vogliono più sapere del pallone. Io gestisco delle strutture, me ne accorgo tutti i giorni. Io e i miei amici non vediamo l’ora che arrivi il giorno della partitella, loro, invece, sono sdegnati”.
Alessandro Birindelli parte dalla fine. Ha 43 anni e ha vinto quattro scudetti in dieci anni di Juventus. Ora è tornato a Pisa, la sua città, dove allena la squadra Under 16 e assiste alla crescita del figlio, Samuele, classe 1999, che ha già esordito in B ai tempi di mister Gattuso e oggi è titolare in C. Birindelli conosce il sistema, dal livello più alto ai campi polverosi. E, se ne parla male, è per affetto: “Tutti i ragazzi vogliono giocare a pallone, rimane lo sport nazionale. Il problema è quello che succede dopo, un percorso in cui spesso si sentono obbligati e da cui non vedono l’ora di fuggire”.
LA SUA TESI ha il sostegno dell’ultimo dossier della federazione, il Report Calcio 2017. I tesserati Figc, si legge, ammontavano nella stagione 2015-2016 a 1.353.866, un dato in calo del 2,9% rispetto all’anno prima. Ma, mentre il settore giovanile e scolastico ha fatto registrare un +0,6 per cento, i giocatori dilettanti e professionisti sono calati di 4 punti. Tra il 2008 e il 2016 i giovani iscritti, circa 827 mila trai 5 e i 16 anni( il 20% del totale), sono aumentati dell’11,5%, contro il -21,6% degli adulti dilettanti.
Solo che, suggerisce Birindelli, poi scatta la dispersione, come al termine di un immaginario “calcio dell’obbligo”. “Se non si inverte la tendenza, continueremo a par- lare di un pallone malato che non produce giovani all’altezza”. Oggi le società chiedono un contributo di 350 o 400 euro a stagione per ogni piccolo atleta, cifra che, calcolatrice alla mano, è di molto superiore a quella necessaria per assicurazioni, materiali e il resto del nécessaire. “Io non ho mai pagato per giocare a calcio. Capisco che così ci siano più soldi per i club e le federazioni, ma, puntando sui numeri e non sulla qualità, non si offre un buon servizio”, afferma l’ex terzino della Juve.
Tocca anzitutto alle istituzioni sportive, oggi commissariate e, si spera, pronte per essere formattate, riprendere un filo che si è interrotto: “Devono riconoscere e incentivare chi fa quotidianamente un lavoro di formazione sul territorio: ci sono molte realtà sane e volontari mossi solo dal piacere di stare assieme ai ragazzi e insegnare sport. Io vengo da un’epoca in cui gli istruttori erano maestri di vita, mentre ora contano solamente i brand. Basta con i sogni irrealizzabili: non serve mandare i ragazzi nella società che ha il grande nome, quando, spesso, ci sono realtà minori che lavorano con molta più dedizione e passione”.
Una prima risposta, parziale, è arrivata con l’apertura dei centri federali territoriali della Fgci nelle diverse regioni italiane. Il progetto, finanziato con 9 milioni, andrà a regime nel 2020, con la realizzazione di 200 strutture. Da affiancare a quelle dei club, che, fino ai livelli più alti, spesso non sono adeguate. È bene che qualcosa si muova, perché “dopo il 2006 è mancata completamente la programmazione”, dice Cataldo Bevacqua, agente Fifa, specializzato nelle procure di giovani calciatori. “Oggi molti settori giovanili sono affidati a società affiliate, gestiti dall’esterno: lo fanno anche i grandi club e in Serie C è sempre più frequente. Inol- tre le regole federale sugli Under penalizza proprio i ragazzi, che giocano nelle prime squadre finché lo prevedono le norme, e poi spariscono dai radar”. Anche per Bevacqua l’unica soluzione è “ripartire dal basso, perché l’agonismo esasperato che vedo già dalle scuole medie è controproducente”.
I PROBLEMI non sono altri, anche nell’anno zero del nostro calcio. Arrampicandosi fino al vertice della piramide, la questione giovanile è il vero tema. Secondo un dato di ottobre del Cies, osservatorio internazionale con sede a Neuchatel, la prima squadra italiana per giocatori formati in casa che militano nelle società professionistiche di tutta Europa è l’Inter, al 39º posto. Sotto contratto per la società milanese, però, ne è rimasto solo uno oggi. Sempre l’ente svizzero, un anno fa, classificava la Serie A dietro a Francia, Liga e Bundesliga, e davanti solo alla Premier tra i tornei più prestigiosi, per numero di debuttanti (15) e minuti disputati (2.181) dei giovani.
Come ha di recente spiegato un’inchiesta del Finan
cial Times, con le nuove generazioni si potrebbero fare i soldi: lo dimostra l’e sp erienza del Benfica, che negli anni ha incassato oltre 430 milioni dalla formazione dei propri talenti. La prima italiana? Fuori dalla top ten, con l’undicesimo posto della Roma. “Voglio essere ottimi-
sta: le cose stanno cambiando e i giallorossi ne sono una prova, così come l’Atalanta e soprattutto noi, che cinque anni fa abbiamo rivoluzionato l’impostazione tattica dei nostri vivai, uniformando il lavoro tra le diverse squadre, e continuiamo a mandare giovani in prima squadra – commenta Stefano Nava, ex giocatore rossonero, è oggi allenatore dei giovanissimi del Milan – È però innegabile che in questi anni sia mancata la volontà di incidere da parte di chi è chiamato a decidere, di occuparsi davvero della formazione dei ragazzi, investire sui giovani parti significative di fatturato. Se non avviene dopo un Mondiale perduto, con quattro anni a disposizione, quando lo facciamo?” si chiede Nava. Che ricorda come “la Germania sia diventata la potenza che conosciamo con un lavoro metodico sui vivai”, con t rai
ning camp sparsi in tutto il Paese e scuole d’elite: solo la federazione ha investito negli ultimi anni 100 milioni nel settore giovanile.
E POI IL BELGIOo“l’Inghilterra, che nei prossimi anni camperà di rendita sul lavoro di questi anni sui suoi prospetti”. “Prendiamo spunto d al l ’ estero, pensiamo alle squadre B, dove fare crescere i ragazzi interessanti e un po’ tardivi” conclude. “L’unica risposta possibile è pianificare e ripartire dai ragazzi. L’epoca del tutto e subito deve finire”.
BIRINDELLI, EX DIFENSORE DELLA JUVENTUS “I ragazzi vogliono ancora giocare. Il problema è dopo: un percorso da cui spesso non vedono l’ora di fuggire”
NAVA, MISTER DEI GIOVANISSIMI MILAN “In questi anni è mancata la volontà di incidere e di occuparsi davvero della loro formazione”