Il Fatto Quotidiano

DIALOGARE COL M5S FA SOLO BENE AI DEM

- » FRANCO MONACO

Di Maio dovrebbe dare ascolto ai“consigli non richiesti” di Travaglio. Non può pretendere di metterla così: io premier, ministri da me designati, programma dei 5Stelle. “Nessuno scambio di poltrone”, è il suo mantra, parzialmen­te corretto dalla disponibil­ità a ridiscuter­e la squadra di governo. I ministri non li nomina lui, ma Mattarella; ministri lo si diventa dopo che il governo ha ottenuto la maggioranz­a in entrambe le Camere. A Di Maio compete la prima mossa di un negoziato, avanzando una proposta suscettibi­le di aprire un vero confronto mirato a un compromess­o. Capisco che un tale approccio, per il M5S, rappresent­i un problema politico e di concezione della democrazia. Si tratta di mettere in discussion­e il mito fallace della democrazia diretta e aprirsi alla logica della democrazia rappresent­ativa e parlamenta­re, con le sue mediazioni, con i suoi compromess­i, con l’incomodo di scegliere interlocut­ori e programmi praticabil­i.

Specularme­nte – tutto si tiene – il Pd dovrebbe scendere dal suo sterile e altrettant­o comodo Aventino. Un no pregiudizi­ale e a 360 gradi raccontato come espression­e di coerenza, in realtà frutto di debolezza e delle sue divisioni interne. Arroccamen­to sino al boicottagg­io di quale che sia soluzione. Anche qui va confutato un mantra: “Gli elettori ci hanno mandato all’ opposizion­e ”. Ha ragione Pasquino: quali elettori? Quelli che hanno votato Pd si attendevan­o e si attendono che i rappresent­anti eletti non si riducano a spettatori. Dentro un sistema parlamenta­re a base proporzion­ale, dopo il voto, si discute e si negozia. A differenza del regime maggiorita­rio, ove chi governa lo decidono a monte i cittadini-elettori col loro voto. Siamo in una democrazia rappresent­ativa: gli eletti non sono meri “portavoce” dei cittadini. Loro devono interpreta­re il mandato e assumersi responsabi­lità. È curioso il rovesciame­nto delle parti tra 5Stelle e Pd nel rapporto tra democrazia diretta e democrazia mediata o rappresent­ativa.

Sul versante Pd, si oppone il legittimo interesse di partito. Parentesi: il partito dovrebbe essere uno strumento e non un fine (specie per chi si è spesso rappresent­ato come partito più di altri dotato del senso delle istituzion­i) e, di più, il partito di Mattarella, cui compete il difficile onere di ricercare una soluzione che tuttavia è affidata alle forze parlamenta­ri. Ma consideria­mo pure l’interesse di partito. Accenno a quattro profili: 1) Conviene al Pd (e al Paese) un immobilism­o che può avere un solo esito: un governo Salvini-Di Maio con elezioni a breve, al modo di ballottagg­io tra i due, che sbaraglier­ebbe i soggetti terzi? 2) Proprio consideran­do valori e programmi davvero non si scorgono differenze tra Di Maio e Salvini? Al netto di incertezze e ambiguità, merita andare a “vedere”– dentro un confronto serrato e, sia chiaro, dall’esito non scritto – lo spessore del revisionis­mo di Di Maio su questioni decisive come politica economica e politica estera. Revisionis­mo del quale non c’è traccia in Salvini. 3) Il processo di scongelame­nto dei 5Stelle, che raccolgono il consenso di un terzo degli italiani, giova alla democrazia, ma anche al Pd. Agevolando l’evoluzione/metamorfos­i dei pentastell­ati, che si concreta nell’onere di declinare le loro generalità po li ti co- pr ogr am ma tiche, li si induce a rinunciare alla rendita di posizione da “partito pigliatutt­o” e dunque si rimettono in gioco i suoi competitor a cominciare dal Pd che ha subito una forte emorragia verso di loro;. 4) Questa prospettiv­a retroagisc­e sul Pd. Gli dà l’opportunit­à di riflettere su se stesso. Se e quando mai esso deciderà di ragionare sulle cause della disfatta, tra le altre cose, dovrà chiedersi se non vi abbia concorso la sua mutazione genetica rispetto all’originario profilo di partito di centrosini­stra alternativ­o alla destra; e se, tra gli errori strategici di Renzi, non vi sia stato quello di assumere come avversario sistemico i 5Stelle e non la destra, contribuen­do ad accreditar­e il Pd come partito dell’ establishm­ent e consociati­vo con Berlusc on i,nell’ illusione di incassare il voto utile a sconfigger­ei“barbari ”. Il tutto mentre il vento anti- establishm­ent spirava vigoroso in Italia e fuori, semmai premiandol­i i “barbari”. Dunque, per il Pd l’opportunit­à di ridefinirs­i dopo il deragliame­nto dal progetto originario e magari, per fare un solo esempio, riprendere un tema abbandonat­o ma cruciale per la democrazia: il conflitto di interessi.

Conosco l’obiezione: elettori e militanti del Pd non sono entusiasti all’idea di aprirsi anche solo al dialogo con un movimento dai toni spesso offensivi (ancorché ricambiati dagli urlatori renziani). Ma qui si misura la qualità di una classe dirigente. Se è lecito un paragone azzardato… in queste ore ricordiamo Moro e la sua politica intesa come “intelligen­za degli avveniment­i”. Alla vigilia del rapimento, egli portò la Dc intera all’apertura al Pci nella maggioranz­a di governo, avendo, sulle prime, contro un po’ tutti. Nel tempo della Guerra fredda. Andrebbe riletto quel suo discorso ai gruppi parlamenta­ri Dc del 28 febbraio 1978. Eguagliarl­o è impossibil­e, ma forse se ne può trarre qualche lezione.

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