DIALOGARE COL M5S FA SOLO BENE AI DEM
Di Maio dovrebbe dare ascolto ai“consigli non richiesti” di Travaglio. Non può pretendere di metterla così: io premier, ministri da me designati, programma dei 5Stelle. “Nessuno scambio di poltrone”, è il suo mantra, parzialmente corretto dalla disponibilità a ridiscutere la squadra di governo. I ministri non li nomina lui, ma Mattarella; ministri lo si diventa dopo che il governo ha ottenuto la maggioranza in entrambe le Camere. A Di Maio compete la prima mossa di un negoziato, avanzando una proposta suscettibile di aprire un vero confronto mirato a un compromesso. Capisco che un tale approccio, per il M5S, rappresenti un problema politico e di concezione della democrazia. Si tratta di mettere in discussione il mito fallace della democrazia diretta e aprirsi alla logica della democrazia rappresentativa e parlamentare, con le sue mediazioni, con i suoi compromessi, con l’incomodo di scegliere interlocutori e programmi praticabili.
Specularmente – tutto si tiene – il Pd dovrebbe scendere dal suo sterile e altrettanto comodo Aventino. Un no pregiudiziale e a 360 gradi raccontato come espressione di coerenza, in realtà frutto di debolezza e delle sue divisioni interne. Arroccamento sino al boicottaggio di quale che sia soluzione. Anche qui va confutato un mantra: “Gli elettori ci hanno mandato all’ opposizione ”. Ha ragione Pasquino: quali elettori? Quelli che hanno votato Pd si attendevano e si attendono che i rappresentanti eletti non si riducano a spettatori. Dentro un sistema parlamentare a base proporzionale, dopo il voto, si discute e si negozia. A differenza del regime maggioritario, ove chi governa lo decidono a monte i cittadini-elettori col loro voto. Siamo in una democrazia rappresentativa: gli eletti non sono meri “portavoce” dei cittadini. Loro devono interpretare il mandato e assumersi responsabilità. È curioso il rovesciamento delle parti tra 5Stelle e Pd nel rapporto tra democrazia diretta e democrazia mediata o rappresentativa.
Sul versante Pd, si oppone il legittimo interesse di partito. Parentesi: il partito dovrebbe essere uno strumento e non un fine (specie per chi si è spesso rappresentato come partito più di altri dotato del senso delle istituzioni) e, di più, il partito di Mattarella, cui compete il difficile onere di ricercare una soluzione che tuttavia è affidata alle forze parlamentari. Ma consideriamo pure l’interesse di partito. Accenno a quattro profili: 1) Conviene al Pd (e al Paese) un immobilismo che può avere un solo esito: un governo Salvini-Di Maio con elezioni a breve, al modo di ballottaggio tra i due, che sbaraglierebbe i soggetti terzi? 2) Proprio considerando valori e programmi davvero non si scorgono differenze tra Di Maio e Salvini? Al netto di incertezze e ambiguità, merita andare a “vedere”– dentro un confronto serrato e, sia chiaro, dall’esito non scritto – lo spessore del revisionismo di Di Maio su questioni decisive come politica economica e politica estera. Revisionismo del quale non c’è traccia in Salvini. 3) Il processo di scongelamento dei 5Stelle, che raccolgono il consenso di un terzo degli italiani, giova alla democrazia, ma anche al Pd. Agevolando l’evoluzione/metamorfosi dei pentastellati, che si concreta nell’onere di declinare le loro generalità po li ti co- pr ogr am ma tiche, li si induce a rinunciare alla rendita di posizione da “partito pigliatutto” e dunque si rimettono in gioco i suoi competitor a cominciare dal Pd che ha subito una forte emorragia verso di loro;. 4) Questa prospettiva retroagisce sul Pd. Gli dà l’opportunità di riflettere su se stesso. Se e quando mai esso deciderà di ragionare sulle cause della disfatta, tra le altre cose, dovrà chiedersi se non vi abbia concorso la sua mutazione genetica rispetto all’originario profilo di partito di centrosinistra alternativo alla destra; e se, tra gli errori strategici di Renzi, non vi sia stato quello di assumere come avversario sistemico i 5Stelle e non la destra, contribuendo ad accreditare il Pd come partito dell’ establishment e consociativo con Berlusc on i,nell’ illusione di incassare il voto utile a sconfiggerei“barbari ”. Il tutto mentre il vento anti- establishment spirava vigoroso in Italia e fuori, semmai premiandoli i “barbari”. Dunque, per il Pd l’opportunità di ridefinirsi dopo il deragliamento dal progetto originario e magari, per fare un solo esempio, riprendere un tema abbandonato ma cruciale per la democrazia: il conflitto di interessi.
Conosco l’obiezione: elettori e militanti del Pd non sono entusiasti all’idea di aprirsi anche solo al dialogo con un movimento dai toni spesso offensivi (ancorché ricambiati dagli urlatori renziani). Ma qui si misura la qualità di una classe dirigente. Se è lecito un paragone azzardato… in queste ore ricordiamo Moro e la sua politica intesa come “intelligenza degli avvenimenti”. Alla vigilia del rapimento, egli portò la Dc intera all’apertura al Pci nella maggioranza di governo, avendo, sulle prime, contro un po’ tutti. Nel tempo della Guerra fredda. Andrebbe riletto quel suo discorso ai gruppi parlamentari Dc del 28 febbraio 1978. Eguagliarlo è impossibile, ma forse se ne può trarre qualche lezione.