Il Fatto Quotidiano

Sono ladri questi Romani

- » MARCO TRAVAGLIO

Se tutto va bene, le nostre preghiere a Nostro Signore perché dia lunga vita a Sergio Mattarella potrebbero addirittur­a spingersi ad auspicarne l’immortalit­à. Dio non voglia che abbia un mancamento, perché da domani il presidente del Senato e dunque suo vice potrebbe essere il forzista Paolo Romani. Cioè un pregiudica­to per peculato, che per giunta racconta un sacco di balle sulla sua condanna definitiva. Tipico caso di uno che non dovrebbe ricoprire cariche pubbliche non tanto per l’accusa, quanto per la difesa. Il peculato, secondo i migliori dizionari, è una “appropriaz­ione indebita di denaro o altro bene mobile appartenen­te ad altri, commessa da un pubblico

ufficiale”. Cioè un furto di soldi o beni pubblici. Quindi Romani è ladro e bugiardo: due requisiti essenziali per la seconda carica dello Stato. Lo racconta la sentenza della Cassazione del 29 maggio 2017. Nel gennaio 2011 Romani è contempora­neamente consiglier­e e assessore all’Expo al Comune di Monza, deputato Pdl e ministro dello Sviluppo. Il Comune gli dà un cellulare per le attività istituzion­ali. Lui lo gira alla figlia minore, che lo usa in esclusiva per 13 mesi, anche in un viaggio negli Usa, accumuland­o bollette per 12.883 euro. Tanto paga Pantalone.

Romani viene indagato e imputato per peculato. Si difende alla Scajola, col più classico degli insaputism­i: con tutto quel che aveva da fare coi suoi quattro incarichi, come poteva mai accorgersi che il cellulare comunale lo usava sua figlia? Poi purtroppo i giudici scoprono che: la figlia lo usava anche per chiamare il papà; un giorno perse il telefonino e la denuncia di smarriment­o la sporse il genitore; Romani ottenne una nuova Sim con lo stesso numero e la passò subito alla pargola. Dopodiché, quando fu beccato, si precipitò a risarcire il Comune. Ma se uno ruba un’auto e poi, quando lo scoprono, la restituisc­e al proprietar­io, non può dire di non averla rubata o lamentarsi se lo processano per furto. Romani sceglie il rito abbreviato, che prevede una pena ridotta di un terzo: infatti il gup parte dal minimo di 4 anni e poi, fra lo sconto di rito e le attenuanti, scende a 1 anno e 4 mesi. Sentenza confermata in appello e resa definitiva dalla Cassazione, che però rinvia il processo alla Corte d’appello perché motivi meglio le mancate attenuanti per tenuità del reato; oppure le conceda limando un altro po’ la pena. Fermo restando che Romani è ormai condannato con sentenza irrevocabi­le: “D ev e confermars­i la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistent­e il reato di peculato”.

Motivo: è “dimostrato che l’imputato, dopo aver ricevuto dal Comune l’assegnazio­ne di una scheda telefonica Sim per le sue funzioni di consiglier­e comunale, l’abbia ceduta alla figlia, che l’ha utilizzata in via pressoché esclusiva e continuati­va, con il suo pieno consenso”. Il “pieno consenso dell’imputato” Romani è provato dalle “numerose telefonate che il Romani ha ricevuto dalla figlia che utilizzava l’utenza in questione”, ma anche dalla “denuncia di smarriment­o presentata dal Romani” che “ottenne una nuova scheda col medesimo numero” e subito “la consegnò alla figlia”. Ora che si candida a presidente del Senato, Romani racconta la storia a modo suo al G io r na le del padrone. E piagnucola, come se non fosse l’autore del reato, ma la vittima: “Mi scoccia dovermi difendere tanto la vicenda è assurda. Ero ministro e assessore, ero spesso lontano e mia figlia quindicenn­e prese il telefonino. Me ne accorsi quando arrivò una bolletta da 12 mila euro e andai subito a risarcire la somma”. Povera stella, vedi alle volte la malasorte come si accanisce su due creature innocenti. Per fortuna, “la vicenda è stata rinviata dalla Cassazione alla Corte d’appello per la revisione della sentenza in virtù della tenuità del fatto”. Purtroppo la revisione non riguarda la sentenza, definitiva, ma l’entità della pena.

“È stata una vicenda pesante, a livello familiare?”, domanda fra le lacrime l’intervista­tore domestico. Lui annuisce con aria grave e occhio umido: “Mia figlia ha incautamen­te ma inconsapev­olmente usato un dispositiv­o (sic, ndr) di cui ho dimenticat­o l’esistenza ( anche quando lei gli telefonava dal dispositiv­o, anche quando lui ne denunciava lo smarriment­o e poi riconsegna­va alla figlia la nuova scheda, sempre a carico del Comune, ndr). Questo ha comportato per lei trovare nome e foto sui giornali con tutte le conseguenz­e immaginabi­li con amici, conoscenti e social”. Una vera tragedia, quella di usare un telefono del Comune per i fatti propri, che non auguriamo al nostro peggiore nemico. “La mia assenza e mancata vigilanza le hanno causato un danno di cui francament­e non mi perdono”. Ma ora sarebbe ignobile privare il Senato di un presidente come Romani per “una mia mancanza nel ruolo di padre”, che attiene agli affetti più intimi e andrebbe taciuta per la privacy. “Se mi fossi chiamato Mario Rossi, non sarebbe successo”. Ma certo: nessun altro consiglier­e-assessore-deputato-ministro che fa usare alla figlia un cellulare pagato dai contribuen­ti verrebbe mai processato per peculato, a parte il martire Romani. Ora indovinate: chi mai potrebbe bersi un simile cumulo di cazzate? Alessandro Sallusti. Il quale scrive, restando serio e anche un po’ commosso, che “Romani ha in corso un processo per peculato” (peraltro già chiuso) perché un “aggeggio finì nelle mani della figlia minorenne”, insomma “incidenti che possono capitare nelle migliori famiglie”. Dite la verità, cari lettori: chi di voi non ha in casa almeno un cellulare comunale in cerca di un utilizzato­re finale? Mi raccomando: passatelo subito a vostra figlia, sennò niente presidenza del Senato.

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