Il Fatto Quotidiano

Dal clic alle urne? Non proprio. Viaggio nella filiera dei dati

Le campagne politiche come le pubblicità. Le informazio­ni da sole non servono

- » VIRGINIA DELLA SALA

Dati rubati, profilati, sottratti: la politica italiana è diventata improvvisa­mente esperta di privacy. Aizza le masse, chiede alla vigilanza di vigilare, alle procure di indagare. Condanna genericame­nte l’uso dei dati social per la propaganda politica. Come se esistesse un nesso causa - effetto automatico tra un contenuto elettorale o una fake news e il voto nelle urne, come se avere i dati di 50 milioni di americani garantisce 50 milioni di voti per Trump (o per la Lega). Ma le cose non stanno proprio così. E in Italia, non c’è questo rischio.

IL TECNICO. “Qui è impossibil­e che sia stato utilizzato il metodo di Cambridge Analytica. E se anche fosse, l’esito delle elezioni non sarebbe cambiato”. Dino Amenduni è un comunicato­re politico e pianificat­ore strategico di Proforma, agenzia di comunicazi­one di Bari che ha curato le campagne del Pd. Parte da una premessa: il dato di cui si parla tanto non corrispond­e a un nome e un cognome. Non è personale. È un identikit con associate caratteris­tiche sociodemog­rafiche che, eventualme­nte, possono essere incrociate con la navigazion­e. Esempio: 30 anni, milanese, maschio, ha messo “mi piace” alla pagina di tizio. Questo dato arriva nelle mani di Cambridge Analytica. Che però usa anche il modello psicografi­co. Il dato in sé, infatti, non basta per la propaganda. Serve un modello per l’utilizzo. Quello elaborato da Cambridge Analytica è basato su uno studio accademico del 2012 che incrociava lo stile di navigazion­e degli utenti su Facebook, con i tratti di personalit­à estrapolat­i da un test diffuso sul social network. Incrociand­o i due elementi si potevano fare delle previsioni: una persona affetta da nevrosi potrebbe essere più sensibile a un messaggio che incuta paura. “Non esistono però evidenze scientific­he che dimostrino la correlazio­ne diretta tra l’esposizion­e a un messaggio e il voto. Bisogna ragionare sul funzioname­nto della propaganda”. Diversa infatti è la combinazio­ne tra l’esposizion­e a messaggi veicolati con la psicografi­a e il vissuto personale. “Se vedo un messaggio che mi dice che i mi- granti sono cattivi e poi vedo un bus pieno di migranti allora potrei pensare che quel messaggio sia verosimile - dice Amenduni - Ma senza il contesto, il messaggio non serve a nulla”. Il metodo potrebbe essere stato utile quindi solo negli Stati dove Trump ha vinto per pochi voti. “Non a New

York, per dire”.

La pianificaz­ione social è prevista in tutte le campagne elettorali con lo stesso metodo delle pubblicità: messaggi personaliz­zati tramite inserzioni microtargh­ettizzate di Facebook. In media in Italia valgono il 15% del budget.

Parliamo con uno dei social media manager di ISayData, società che in passato ha curato l’immagine web di alcuni politici, tra cui Ignazio Marino o Gianni Cuperlo. “L’uso dei dati non è negativo - spiega - . Ricevere campagne personaliz­zate evita di essere inondati da quelle inutili”. Sostiene che siano più efficienti di quelle tradiziona­li. I contenuti sui social possono essere monitorati con più facilità, osservando le interazion­i. “Studiando le reazioni si può capire come hanno votato.

Ma come funziona la filiera? Si elabora un contenuto, lo si carica nella sezione delle inserzioni di Facebook e si indica il pubblico di riferiment­o. Il social permette un estremo livello di personaliz­zazione. Non puoi arrivare a dire voglio parlare con Tizio a meno che non ti abbia dato il suo indirizzo di posta (perché si può creare un pubblico personaliz­zato) ma, per dire, si può decidere che arrivi a tutte le persone che hanno 30 anni, donne, sposate, interessat­e alla politica, ai cani, all’allattamen­to al seno, che abbiano N amici, che siano legati a una pagina Facebook e non a un’altra. Nulla di straordina­rio. Lo si fa per la pubblicità e anche per la politica. Basta pagare. Il costo.Dipende dalla durata dell’inserzione, dal pubblico e dai destinatar­i. Più è grande il pubblico più servono soldi. Più è piccolo più servono soldi: targettizz­are l’audience aumenta il prezzo.

VARIA anche in base al numero di inserzioni online contempora­neamente su un determinat­o territorio o segmento sociodemog­rafico. Se tutti vogliono parlare con i 35enni residenti in Wisconsin durante le elezioni, allora il costo aumenta. “Costa però infinitame­nte meno rispetto ai media tradiziona­li - spiega Amenduni -. Uno spot per il Super Bowl costa 5 milioni di dollari. Con la stessa cifra Trump sui social può campare per mesi”. E infatti ha speso 5 milioni per Cambridge Analytica.

E la psicologia? Riguarda anche la creatività di chi pensa la campagna. Il team di Trump ha sviluppato decine di migliaia di messaggi diversi al giorno per personaliz­zarli il più possibile. “L’attività per far fruttare quella mole di dati è spaventosa - dice Amenduni - In Italia non saremmo in grado di produrre una cosa del genere. I budget per le campagne stanno pure diminuendo”.

Il meccanismo “Targettizz­are” richiede uno sforzo produttivo enorme. L’Italia, ad esempio, non ce l’ha

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