Il Fatto Quotidiano

Liberate la tv pubblica dal giogo della politica

- » GIOVANNI VALENTINI

“Si tratta di cogliere un’altra occasione cruciale per disegnare una Rai riconducib­ile alla versione aggiornata di ‘una nazione che sa parlare alla nazione’, con il linguaggio della trasparenz­a, della completezz­a e della contestual­ità, cioè del pluralismo”

(dall’intervento di Sergio Zavoli al Seminario sullo stato della tv in Italia, 24 novembre 2009 – Atti parlamenta­ri, pagg. 37-38)

Non è soltanto il contratto – peraltro più che lauto e generoso – del conduttore-artista Fabio Fazio che viene messo sotto accusa dall’Autorità anticorruz­ione nella sua “den uncia” alla Corte dei conti. Bensì, per la stessa rilevanza del compenso e per le polemiche che ha suscitato, tutta la gestione attuale della Rai. E con questa, la pseudo- riforma che l’ha insediata, sotto i governi Renzi e Gentiloni. Una “riformicch­ia”, come qui l’abbiamo definita fin dall’inizio, che ha attribuito pieni poteri al direttore generale, sottoponen­dolo alle dipendenze di Palazzo Chigi contro tutte le sentenze della Corte costituzio­nale che ne attribuiva­no invece la designazio­ne al Parlamento.

Oltre che sotto il profilo della congruità economica e contrattua­le, l’Autorità presieduta da Raffaele Cantone contesta il mega-contratto di Fazio anche in nome del conflitto d’interessi. Il conduttore, infatti, è partner della società produttric­e del programma Che tempo che fa, cioè è produttore di se stesso e in quanto tale fornitore della medesima Rai. Un doppio ruolo che, anche al di là delle sue capacità “artistiche”, contrasta evidenteme­nte con le regole della trasparenz­a e della corretta amministra­zione di un’azienda pubblica.

TANTO PIÙ PESANTE è la “denuncia” dell’Anac perché si fonda su un esposto del deputato “dem” Michele Anzaldi, già segretario della Commission­e parlamenta­re di Vigilanza. Toccherà ora alla Corte dei conti verificare se il contratto di Fazio ha prodotto danni alla collettivi­tà. E di conseguenz­a, se esistono anche responsabi­lità in solido da parte dei consiglier­i di amministra­zione che a suo tempo l’hanno approvato.

Il fatto è che il “carrozzone” di viale Mazzini sembra tornato ai fasti della Prima Repubblica. Solo che, allora, a guidarlo c’era un signore che si chiamava Ettore Bernabei, il quale imponeva le calze scure alle gemelle Kessler e censurava la satira di Alighiero Noschese, ma in pieno monopolio televisivo aveva un senso del servizio pubblico che sembra diventato quasi anacronist­ico.

Con l’avvento dei “due vincitori” decretato dalle ultime elezioni politiche, adesso si spera che la situazione possa cambiare in meglio. Anche perché è difficile fare peggio. Ma siccome a questo – come dice il proverbio – “non c’è mai fine”, si può formulare un auspicio: liberate la Rai dal giogo della politica. E restituite­la ai cittadini, vale a dire ai legittimi proprietar­i che in realtà finora non ne hanno mai disposto.

Il primo passo dovrebbe essere quello di trasferire il pacchetto azionario dell’azienda al ministero dell’Economia, e quindi dal governo a un soggetto terzo e indipenden­te: per esempio, una Fondazione rappresent­ativa della società civile, formata da esponenti del mondo culturale e accademico, del giornalism­o, dell’ambientali­smo, del consumeris­mo. Spetterà poi a questo organismo nominare un consiglio di amministra­zione composto da non più di cinque persone, qualificat­e e autorevoli, tra cui un amministra­tore delegato che risponda esclusivam­ente alla sua fonte di nomina, affiancato da un direttore editoriale con funzioni di indirizzo e di coordiname­nto.

Non ci vuole molto per riformare la Rai. Basta scendere dal “carrozzone”.

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