“Riproduco il pensiero ossessivo delle vittime”
“La carne”, esordio di Emma Glass: cruda storia di Peach, vegetariana che subisce una violenza carnale
Leggere Emma Glass è un’esperienza che vi segnerà. La
Carne (pubblicato da Il Saggiatore, ottimamente tradotto da Franca Cavagnoli) – il romanzo d’esordio della 30enne infermiera inglese – è una favola nera, surreale e poetica in cui racconta di Peach, una ragazza vegetariana che subisce una violenza carnale. Da parte di un uomo fatto di salsicce. Metaforico e capace di mescolare l’aulico e il profano, Glass trova una lingua dura che batte sulla pagina, raccontando il corpo straziato e violato, evocando il flusso di coscienza di Joyce e riuscendo a rendere alla perfezione l’esperienza del trauma. Sino alla catarsi finale: “Non credo al lieto fine ma la vendetta può non essere sufficiente a pareggiare i conti”. Bene e male, violenza e redenzione si affrontano in prosa e così facendo Emma Glass (che incontrerà i lettori in occasione di BookPride, la Fiera Nazionale dell’editoria indipendente a Milano, domenica 25 con Elena Stancanelli) ha convinto pubblico e critica. Al punto che George Saunders, fresco vincitore del Man Booker Prize, ha scritto: “Questo libro rinnova la fede nel potere della letteratura”. Con buona pace di chi continua a pensare che il romanzo sia morto da tempo. Mrs. Glass, il suo libro è come una partitura musicale. Da dove nasce quel ritmo?
La potenza di James Joyce e Gertrude Stein mi ha sempre affascinato ma all’università volevano scrivessi solo qualcosa di commerciale. A me, invece, interessava parlare di come il male e il dolore possano imprigionarci nella nostra stessa mente. Mi affascina il lato surreale della realtà e per questo alla trama antepongo sempre la ricerca del ritmo, l’uso della punteggiatura, le ripetizioni. Perché?
Il ritmo è cruciale per rendere i processi mentali delle vittime che subiscono un trauma e continuano a tornare e ritornare sui fatti con ossessività. Volevo che la lettura fosse un’esperienza viscerale da cui è impossibile fuggire. Credo davvero che la lettura possa condurci sino a una comprensione quasi fisica del dolore. La bellezza per me risiede tutta nelle parole che assumono senso solo grazie ai lettori. Colpisce la sua ricerca della lingua del calvario.
Il libro si legge praticamente come l’ho scritto, ogni punto, ciascuna virgola è posizionata meticolosamente perché volevo trasmettere una sensazione di start-stop. Di cadu- ta e inizio. Ho letto e riletto le prime righe lasciando fuori la rabbia, adottando la musicalità. Ma sapevo che la storia avrebbe funzionato solo ricorrendo ad un’astrazione. E così la mia protagonista, Pea ch (questo il titolo originale, ndr), diventa The Peach, La Pesca cioè qualcosa di bello ed elegante che alla fine si sarebbe decomposto. Proprio come una bellissima pesca, immersa nell’acqua, marcendo anziché purificandosi. Se la mente diventa una prigione, non è possibile salvarsi? No, non credo si possa scappare dalla trappola del dolore. Non ho vissuto quella violenza carnale che racconto ma tutti noi abbiamo subito un trauma, una ferita che ha cambiato il nostro mondo. Peach vive e rivive l’esperienza traumatica e alla fine si vendica brutalmente ma non è abbastanza. Il dolore fa già parte di lei. Nessun lieto fine?
Non mi piace l’happy end, non vanno così le cose nella realtà.
A proposito di denuncia e violenze subìte, che ne pen- sa del movimento femminista #MeToo?
Credo che sia ancora un movimento non inclusivo. Ci si deve esporre pubblicamente e per farlo serve un approccio tecnologico, senza nessuna tutela nei confronti degli haters. Dobbiamo accettare anche la ritrosia delle vittime, del resto le vittime che hanno denunciato via Twitter hanno ottenuto un feedback immediato e un richiamo mediatico. Nient’altro.
La denuncia della violenza non basta?
No, credo che le piattaforme social non siano sufficienti, dovremmo cercare di essere più sensibili anche nel mondo reale, metabolizzando il dolore con un percorso nei servizi sociali.
Il suo primo libro ha riscosso anche i favori di George Saunders. Adesso lascerà il suo lavoro da infermiera? Sinceramente? Non mi sento ancora una scrittrice. Voglio tenermi in equilibrio fra i due ruoli. Ho lavorato duramente per diventare infermiera, è una sfida quotidiana che rende migliore la mia scrittura.
Volevo che la lettura fosse un’esperienza viscerale da cui è impossibile fuggire. Una comprensione quasi fisica del dolore