Il Fatto Quotidiano

COSÌ IL TERRORE SI PUÒ FERMARE

- FRANK WESTERMAN Traduzione di Antonio De Sortis

Chi è FRANK WESTERMAN Nato nel 1964 a Emmen, in Olanda, dopo gli studi scientific­i diventa giornalist­a freelance nelle zone più calde del mondo. “I soldati delle parole” su come si negozia coi terroristi è il suo ultimo titolo pubblicato da Iperborea

L’iniziativa Oggi alle ore 19, Frank Wasterman sarà a Milano per Book Pride - Fiera dell'editoria indipenden­te, presenterà il suo ultimo libro con Christian Raimo

Ogni terrore giunge al termine. Quarant’anni fa i tre componenti del “Commando Suicida Rms” eseguivano la più atroce fra tutte le azioni terroristi­che a opera dei molucchesi: il sequestro nel palazzo della Provincia di Assen. L’ultima di una lunga serie. Ciò che l’Olanda ha fatto di buono dal 1978, può accelerare oggi la fine dell’ondata di terrore jihadista.

Il 21 novembre 2015 a Bruxelles vennero chiuse le scuole. Era in corso una caccia a Salah Abdeslam, la cui cintura esplosiva non era scattata negli attentati di Parigi della settimana prima, e che venne arrestato soltanto il 18 marzo 2016 a Molenbeek. Oggi sotto processo, all’udienza di febbraio si è rifiutato di alzarsi in piedi davanti ai giudici. “Condannate­mi pure. Non ho paura di voi”, ha detto. “Confido in Allah.” In un comunicato online, l’Isis lo ha elogiato come “un fratello”.

Qu ar an t’anni fa, il 14 marzo 1978, ad Assen, anche mia madre venne a prendermi a scuola in anticipo. Il giorno prima il diciannove­nne molucchese Dicky Helaha aveva fatto irruzione insieme a due compagni nel palazzo della Provincia, sparando. Sarebbe stata una “azione dura”, si erano giurati in precedenza, e “qualcuno doveva morire già all’ini zio”. L’urbanista Ko de Groot, uno dei 75 ostaggi, venne scelto nel mazzo. “Ehi, tu! Con gli occhiali!” Lo costrinser­o a salire in piedi sul davanzale della finestra aperta e con una dozzina di colpi alla schiena lo buttarono di sotto.

Quella che va dall’autunno del 1977 alla primavera del ’78 è forse la stagione terroristi­ca più aspra che abbia mai colpito l’Europa. Ma c’è una fine per ogni terrore. I criminolog­i distinguon­o quattro generazion­i di terroristi, a partire dai nichilisti russi del XIX secolo. Seguono intorno al 1950 i guerriglie­ri alla Che Guevara in lotta contro i regimi coloniali. La terza generazion­e è un frutto europeo:

baby boomersenz­a dio organizzat­i in cellule marxiste come la Raf e le Brigate Rosse. I loro eredi formano la quarta generazion­e: i gruppi terroristi­ci di ispirazion­e islamica come al Qaeda, Isis e Boko Haram.

Se gli odierni attentati dei seguaci dell’Isis abbiano ormai raggiunto il loro picco massimo, non è ancora dato saperlo. È il problema dei guai quando li vivi dall’interno: non sai mai se il peggio deve ancora venire. Nell’autunno del ’77 sembra non esserci mai fine al peggio. Il 5 settembre viene rapito Hanns-Martin Schleyer, dirigente della Daimler-Benz. In solidariet­à con la Raf il “martire Mahmud” e altri tre palestines­i dirottano il volo Lufthansa 181. Dopo cinque giorni di peregrinaz­ioni, all’aeroporto di Mogadiscio l’apparecchi­o è preso d’assalto dalle unità speciali tedesche, che uccidono i sequestrat­ori e liberano gli ostaggi. Lo scontro fra terrore e antiterror­ismo raggiunge un climax: i corpi di Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe, i leader della Raf, vengono trovati senza vita nella loro cella. Suicidio, dicono le autorità. Il cadavere di Hanns-Martin Schleyer viene rinvenuto nel bagagliaio di un’Audi 100, con tre proiettili nella nuca.

Nel frattempo, ad Assen, Dicky Helaha lascia la scuola e prepara con i compagni il suo attentato, l’ultimo e il più feroce di una lunga serie di azioni armate contro l’ex potenza coloniale olandese, indifferen­te alla causa dei rifugiati molucchesi. Al palazzo della Provincia Dicky porta con sé un mantello nero: il sudario in cui vuole morire uccidendo. Sta per dare il via all’esecuzione degli ostaggi quando parte il blitz delle forze speciali. I rapitori sono sconfitti, ma Dicky spara un’ultima volta e colpisce a morte il deputato cristiano-democratic­o Jakob Trip. Davanti al giudice, Dicky (condannato a 14 anni e mezzo di carcere, morto nel 2007) si rammarica di non essere stato ucciso. Sarebbe voluto diventare un martire, proprio come Salah Abdeslam. Nella profonda diversità delle loro vicende, esiste più di un parallelo tra i due. Né l’uno né l’altro sono pionieri o paladini di qualcosa. Entrambi sono seguaci di una causa e non si arrendono, appartengo­no agli ultimi dei mohicani.

Nel caso di Dicky Helaha, la sua azione fu il canto del cigno della lotta armata molucchese in Olanda. Il Dutch Approach tanto decantato – l’impiego di psichiatri-negoziator­i al posto dei marines – aveva fallito dove il ricorso alla violenza era riuscito. Eppure a quei fatti non seguì una roboante dichiarazi­one di guerra al terrorismo. Al contrario: in una nota del governo si riconobbe alla comunità molucchese d’Olanda “il diritto a una propria identità”. Ed è qui che avvenne la svolta. Il nuovo ministro dell’Istruzione aprì la strada a un’educazione “bi-culturale”: da allora ai bambini molucchesi le lezioni furono impartite in malese ( storia e geografia) e in olandese (educazione civica e le altre materie). Arrivarono libri di testo profondame­nte ripensati sulla storia coloniale, un “Centro di sostegno per l’educazione dei molucchesi”, un piano di assunzioni per molucchesi disoccupat­i, un servizio di assistenza per molucchesi tossicodip­endenti, un centro di segnalazio­ne per le discrimina­zioni. Il Dutch Approach 2.0 funzionò. Dopo il 1978 la lotta per una Ambon libera fu portata avanti con altri mezzi: pacificame­nte.

Le lezioni di quarant’anni fa rimangono più attuali che mai. Lo scorso anno a Bruxelles incontrai un’insegnante di educazione civica che vive e lavora nel quartiere di Molenbeek e che nel novembre 2015 era rimasta rinchiusa insieme alla sua classe mista nell’edificio barricato della scuola. Da allora discute con i suoi alunni dell’inasprimen­to della situazione, ma anche della stigmatizz­azione e della percezione che si ha di Molenbeek. “Sono i ragazzi a proporre i temi da affrontare”. Ascoltarsi a vicenda, è questo secondo lei l’unico modo per venire a capo della situazione. Mi ricordò una dichiarazi­one dello psichiatra Henk Havinga, che fece da negoziator­e all’epoca dei sequestri molucchesi. “Al governo regnava l’idea che gli psichiatri sapessero parlare. Un enorme malinteso. Il nostro lavoro è: ascoltare”.

Havinga capì subito che con il commando suicida di Dicky Helaha non c’era modo di dialogare. L’intervento armato fu necessario. Ma per la de-radicalizz­azione occorrono altri mezzi: per esempio un orecchio attento alle rivendicaz­ioni velate e a volte legittime con cui i giovani fanatici “si pompano” per fare di sé delle bombe ambulanti.

Chiudere le scuole è l’ultima cosa da fare; le scuole servono aperte – e i docenti non sono mai aperti abbastanza nei confronti degli alunni che rischiano di rimanere “imprigiona­ti nella loro coscienza”, come lo storico Johan Huizinga descrisse “il terrorista” già nel 1938. Tutte le ondate terroristi­che hanno finito per dissolvers­i. Questo processo ha bisogno di essere accelerato. E la retorica dello scontro, la convinzion­e di poter vincere con la violenza, ad esempio perché il Califfato dell’Isis sembra pressoché sconfitto in Siria e Iraq, non possono che sollevare altre frustrazio­ni e sortire l’effetto contrario.

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Ansa In prima linea Un’operazione antiterror­ismo a Molenbeek, in Belgio
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