La macelleria finale del dittatore Assad e i potenti complici
Arena per megalomani Assad ha vinto e sta ridisegnando la Siria a suo vantaggio con il beneplacito delle forze internazionali
In Bosnia un colpo di mortaio sul mercato di Sarajevo cambiò il corso della guerra, convincendo infine l’Onu a intervenire. In Siria oggi ti dicono: la tregua tiene, c’è solo fuoco di artiglieria.
Un po’ alla volta, la guerra di Siria è diventata piuttosto una guerra in Siria. La rivolta da cui tutto è iniziato e che ha contrapposto larga parte dei siriani ad Assad, degenerando prima in scontri armati e poi in guerra civile, e poi in guerra santa, in jihad, è finita, ormai: Assad ha vinto. Ai ribelli non resta che un ultimo bastione, Idlib. Un’ul tima battaglia. Ma è finita. Solo che è iniziata una seconda guerra, e molto più complessa della prima: una guerra in cui in Siria, i paesi più svariati combattono per gli obiettivi più svariati. E i siriani non sono più gli attori: sono gli spettatori. Non hanno che un ruolo, ormai: quello delle vittime.
RUSSIA E TURCHIA, Iran e Israele, Hezbollah, e Qatar e l’Arabia Saudita, e naturalmente, Stati Uniti: non manca nessuno. E non solo ognuno ha una sua strategia. Spesso questo “ognuno” è da intendersi in senso letterale: Erdogan, più che la Turchia. Putin, più che la Russia. E tutto, quindi, si fa volubile: al vecchio interesse nazionale, si è sostituito l’interesse personale. Alla politica di potenza, quella di potere e basta.
In risposta all’ennesimo uso di gas da parte di Assad gli Usa hanno ora colpito alcuni centri di ricerca e stoccaggio. E la Siria è tornata in prima pagina. Il 7 aprile di un anno fa, dopo un attacco chimico a Khan Sheikhoun, vicino Idlib, avevano colpito la base aerea di Shayrat - una delle tante e che, tra l’altro, era tornata operativa in poche ore. Ma in realtà, non solo i gas non hanno ucciso che circa 2 mila siriani, lo 0,5% dei 500 mila morti di questa guerra: oggi, soprattutto, non esiste più alcuna opposizione che possa trarre beneficio da un intervento esterno. Né politicamente né militarmente. In Siria non si combatte più. Non ci sono più fronti attivi. Assad bombarda e assedia per costringere alla capitolazione gli ultimi irriducibili. Così i missili di Trump non sono che un messaggio. Un mezzo di comunicazione, non di guerra. Non hanno un obiettivo: sono l’obiettivo.
E, si dice, il mondo sta a guardare. Ma in questi anni l’Onu in Siria non è stata affatto marginale. Anzi. Il suo intervento è iniziato con gli aiuti umanitari, quando non solo ha comprato beni e servizi per milioni di dollari da affaristi inclusi nella lista nera delle sanzioni internazionali, come Rami Makhlouf, foraggiatore di alcune tra le più feroci mi- lizie lealiste, ma ha deciso di cooperare solo con Assad, solo con il governo formalmente riconosciuto, e di consegnare quindi solo ad Assad cibo, gasolio e medicine: senza mai chiedersi dove e a chi finissero. Senza mai tracciare i propri convogli.
CONSENTENDO COSÌ ad Assad di mantenere una parvenza di normalità: di sfamare i siriani nelle aree sotto il suo controllo e affamare tutti gli altri, e presentarsi come il paladino dell’ordine e della stabilità. Di dire: o io o il caos.
E con i negoziati di Ginevra, poi, l’Onu ha proseguito sulla stessa linea. Invece che tentare un accordo unico a livello nazionale, ha optato per una serie di cessate il fuoco a livello locale. Per scelta o per necessità, data la frammentazione dei gruppi armati. Ogni tregua è attuata sul modello del cosiddetto Accordo della 4 città, siglato il 26 marzo 2017: combattenti e attivisti di Madaya e Zabadani, città sunnite vicino Damasco, si sono arresi e trasferiti a Idlib, mentre quelli di Fuaa e Kafrayaa, città sciite vicino Idlib, si son trasferiti a Damasco. Sembrano tregue sono, in realtà, scambi di popolazione - con i ribelli concentrati in aree dove possono essere poi annientati. Caduta Aleppo, sono stati spediti a Ghouta. Ora, caduta Ghouta, a Idlib. In attesa dell’assalto finale.
E la ricostruzione, già in corso, non è che un ulteriore tassello di quest’opera di ingegneria demografica con cui Assad, senza esser disturbato nemmeno dalle agenzie Onu, sta modellando un paese su misura, a sua immagine e somiglianza. Mentre la nostra attenzione era tutta per Douma, è stata approvata la legge numero 10: entro 30 giorni, i siriani devono presentarsi al catasto e registrare i beni immobili. Tra rifugiati e sfollati, circa 13 milioni di siriani stanno per perdere tutto.
Più che una ricostruzione, quella che si profila è una rifondazione.
MA PER MOLTI, anche in Europa, è la soluzione migliore: una Siria ripartita tra sunniti e sciiti. Perché non importa che la rivoluzione rivendicasse libertà e giustizia, che gli attivisti, nel 2011, citassero più Naomi Klein che il Corano: per noi la soluzione sono sempre zone etnicamente, confessionalmente e anche politicamente, omogenee. Come già in Iraq, e prima ancora, in Libano e in Bosnia. Paesi oggi governati in base a un rigido sistema di quote: e oggi tutti al collasso.
Non è che il solito divide et impera. Perché così, piegare il Medio Oriente, e il suo petrolio, ai nostri interessi è più semplice. Ma se quanto al divide, non è difficile dividere, cosa dire invece dell’impera? Perché in Siria c’è poi una terza guerra: quella dei jihadisti. Che è la guerra in cui siamo tutti uniti, in teoria, la guerra per cui abbiamo deciso che Assad era il male minore. E che però, nonostante la caduta di Mosul e Raqqa, bastioni dello Stato Islamico, non è affatto finita. Perché non sono finite le ragioni del radicamento dei jihadisti. Nel Medio Oriente di oggi, il male minore è come il fiume di Aleppo che divideva in due la città e vomitava cadaveri: ma nessuno aveva idea di chi fossero. Se venissero da Aleppo est, e fossero stati uccisi dai ribelli, o da Aleppo ovest, quindi uccisi dal regime. Il male minore, spesso, dipende solo dalla riva su cui ci si trova.
A novembre, la Bbc ha filmato un convoglio dell’Isis che lasciava incolume Raqqa. Erano i giorni in cui il mondo celebrava la sua sconfitta. Era composto da circa 50 camion e un centinaio di altri veicoli, carichi di armi e munizioni. Per un totale di 4 mila jihadisti. Dove sono andati?
Complicità
Pur di conservare una parvenza di tregua, anche l’Onu si è accordata con il regime