Il Fatto Quotidiano

Chi muore si rivede

- » MARCO TRAVAGLIO

Toh, chi si rivede: il Pd. Quando ormai disperavam­o di trovare traccia del secondo partito italiano, votato dal 18,7% degli elettori, s’odono dal Nazareno i primi timidi vagiti e qualche prudente pigolio. Martina, Calenda, Fassino, Serracchia­ni, Rosato, oltre agli antemarcia Emiliano e Boccia e ai più recenti aperturist­i Orlando e Franceschi­ni. Segnali di vita, o almeno di coma vigile. Anche dal fronte renziano. E in quale direzione? Quella di un dialogo con i 5Stelle, la forza politica da sempre più vicina o meno lontana alle idee e ai valori del centrosini­stra. Che, se finora non se n’era accorto, è perché non aveva idee e si era scordato i valori, a furia di copiare da B.. Noi, modestamen­te, l’avevamo scritto più di un anno fa, subito dopo il trionfo del No al referendum. L’unica via d’uscita per Renzi, in alternativ­a al ritiro dalla politica prima promesso e poi smentito, era un bell’esame di coscienza e un ritorno alle (sue) origini. Quelle del rottamator­e anti-casta e anti-establishm­ent che si era presentato alle primarie del 2012 e 2013 come l’ultimo salvagente del Sistema dalla marea montante dei 5Stelle: fronteggia­ndo Grillo senza demonizzar­lo, anzi copiandogl­i le idee per fargli concorrenz­a. Se Renzi torna Renzi e riavvolge il nastro fino al 2013 – dicevamo – rimangiand­osi o correggend­o le politiche berlusconi­ane del suo governo e ripartendo dalla lotta alle diseguagli­anze, ai privilegi, alle mafie, alle lobby, alla corruzione, all’evasione, ai conflitti d’interessi, alle grandi opere inutili, non potrà che trovare un’intesa col M5S e risparmiar­ci un triste ritorno al passato berlusconi­an-leghista.

Naturalmen­te Renzi preferì perseverar­e ed ebbe ciò che meritava: il disastro del 4 marzo, col centrosini­stra al minimo storico in 72 anni di storia repubblica­na. Ora che il suo tempo è scaduto, tocca ad altri rimettere insieme i cocci di una catastrofe che si sarebbe potuto almeno limitare invertendo per tempo la rotta. Dal voto a oggi, il Pd era un pugile suonato che, incapace di reagire e di pensare, abbandonav­a il campo portandosi via la palla e ripeteva mantra demenziali del tipo: “Gli elettori ci hanno mandati all’opposizion­e”, “Di Maio e Salvini sono già d’accordo per governare insieme”, “M5S e Lega sono due destre populiste incompatib­ili con noi” e altre scemenze. Chi osava scrivere il contrario veniva manganella­to in Rete dai troll organizzat­i (l’unica organizzaz­ione rimasta nel Pd è quella dei webeti) con l’hashtag idiota “se nza dim e”: come se cercare intese con altri in un sistema parlamenta­re e proporzion­ale fosse un favore privato a qualcuno.

Invece è il dovere pubblico di chi ha governato per 7 anni ed è stato votato dagli elettori superstiti per dare al Paese il governo più vicino o meno lontano al proprio programma. Provare, ovviamente, non vuol dire riuscirci. Significa anzitutto parlarsi, senza fare gli schizzinos­i. E mettere sul tavolo non i rancori che – come tutti i sentimenti e i risentimen­ti – dalla politica dovrebbero restare fuori. Ma le proposte minime possibili per un’intesa, nella consapevol­ezza che in democrazia non si può pretendere che i vincitori abiurino e passino sotto le forche caudine degli sconfitti. Dopo una disfatta elettorale, è sconsiglia­bile ripetere che non si è sbagliato nulla ed è tutta colpa degli elettori che non hanno capito, e riproporre lo stesso programma appena bocciato nelle urne. Molto meglio individuar­e non tanto i colpevoli (lo sono tutti, nel Pd, pro quota), quanto gli errori. E dire come si intende correggerl­i. Sette anni di governi di larghe intese hanno dimezzato i voti di Pd e FI e spazzato via il cosiddetto Centro, dunque l’ultimo obiettivo da inseguire sarebbe un nuovo governo di larghe intese. Il che dovrebbe escludere l’ennesimo “dialogo” con B. Restano la Lega e i 5Stelle: se per il Pd queste due forze pari sono, non resta che confermare l’opposizion­e a prescinder­e. Se invece, come ripetono tutti i capi e capetti dem, il peggio del peggio sarebbe un governo con la Lega, non resta che lavorare al meglio o al meno peggio guardando all’altro “forno”: quello dei 5Stelle, che Di Maio lascia loro aperto, anzi spalancato, mentre annuncia che sta per chiudere l’altro (con Salvini, avvinto come l’edera a B.). Ieri l’autoreggen­te Martina, dopo 44 giorni di freezer, ha indicato tre priorità: reddito d’inclusione allargato per azzerare la povertà assoluta in tre anni (che poi è un principio di reddito di cittadinan­za); assegno universale per le famiglie con figli; salario minimo legale e tagli al cuneo fiscale.

Tre punti programmat­ici molto simili – come ripetiamo da tempo – a quelli dei 5Stelle. Se ora Martina riuscisse a incontrare Di Maio senza svenire nel tragitto, potrebbe dettagliar­e meglio e dire la sua sui 20 punti che il M5S ritiene a sua volta irrinuncia­bili. E valutare insieme, con l’aiuto degli esperti arruolati da Di Maio per studiare le compatibil­ità sui programmi, se esistano le basi per quel contratto alla tedesca che è il migliore antidoto sia agli inciuci sottobanco, sia ai pasticci tipo governi di minoranza, appoggi esterni, ministeri tecnici, soluzioni balneari a tempo. Per non parlare dei governissi­mi- ammucchiat­a, destinati a fallire sul nascere o a restare paralizzat­i dai veti incrociati. Mai i 5Stelle entrerebbe­ro in un governo con FI e mai la Lega sosterrebb­e un governo col Pd. Dunque il governo di tutti non solo non farebbe nulla, ma escludereb­be i due vincitori delle elezioni e non avrebbe la maggioranz­a. Insomma, sarebbe un governo di nessuno. Almeno questo, dopo 44 giorni buttati, è chiaro: i soli governi possibili, se Salvini resta ostaggio di B., sono quello sull’asse M5S-Pd e quello sull’asse centrodest­ra- Pd. Gli esplorator­i hanno poco da esplorare. E il terzo uomo è un film di Totò.

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