Dem-5Stelle, l’alleanza c’è (nella Cgil)
Un’inchiesta di Corso Italia mostra che il 33% degli iscritti al primo sindacato italiano vota il Cinque Stelle e il 35% il Partito democratico. Si tratta di fette consistenti degli elettorati dei due partiti che sui posti di lavoro sono fianco a fianco
Un’alleanza tra Pd e Movimento 5 Stelle, sia pure di fatto, c’è già. La si trova in Cgil, sindacato nel quale, sulla base di un’analisi del voto del 4 marzo, effettuata dalla Fondazione Di Vittorio in collaborazione con Tecnè, il 33% degli iscritti dichiara di aver votato per il partito di Luigi Di Maio mentre il 35% per il Partito democratico. La somma è superiore ai due terzi, una massa significativa.
La percentuale dei 5 Stelle è la stessa del voto nazionale delle ultime elezioni politiche, mentre quella del Pd è quasi il doppio: 35% contro il 19,3. “L’analisi conferma l’orientamento progressista della base sociale della Cgil” dicono in Corso Italia dove però non si sbilanciano sul “progressista” come giudizio da riferire anche al movimento fondato da Beppe Grillo. Sicuramente si sottolinea che il 52% è un voto che va ai partiti del cosiddetto centrosinistra, comprendendo l’11% di Leu e altre briciole agli altri partiti. L’analisi permette di cogliere con più ampiezza il voto dato ai Cinque Stelle lo scorso marzo e offre una indicazione su quale possa essere il futuro di un partito che, come il Pd, si ostina ancora a definirsi di sinistra nonostante un curriculum imbarazzante.
IL FATTO CHE un terzo degli iscritti al sindacato “rosso” abbia votato Di Maio, infatti, dovrebbe far riflettere la sinistra istituzionale, attivando un comportamento diverso verso l’area grillina. Come spiega la stessa Cgil nella sua inchiesta, a influire sul voto di marzo “sono stati la condizione economica e sociale delle persone, le paure e le insicurezze. Le motivazioni principali dei comportamenti di voto riguardano infatti la mancanza di lavoro, le tasse eccessive, gli stipendi troppo bassi. I dati indicano che chi, invece, ha rivendicato solo ottimismo e successi non è stato premiato”.
Chiaro in questo passaggio l’attacco a Matteo Renzi, ma gli intervistati della Fondazione Di Vittorio e di Tecné hanno ampiamente confermato che a influire sul proprio voto sono stati argomenti sociali ben precisi. Il 46%, infatti, ha votato in base al fatto di non potersi permettere nemmeno “una settimana di ferie all’anno”. Il 43% perché “non riesce a far fronte a spese impreviste” e il 42% perché “ritiene di non avere risorse adeguate per la propria famiglia.
Il M5S in quest’analisi ha colto soprattutto questi temi con il 35% degli elettori che lo hanno votato a causa della “mancanza di lavoro”, mentre solo il 21% per paura dell’immigrazione (percentuale che sale al 41% nel caso della Lega); il 36% lo ha votato per il welfare insufficiente e il 31% per gli stipendi troppo bassi. “È la conferma – scrive la Cgil – di quanto la condizione di povertà assoluta (oltre 4,5 milioni di persone) e relativa, la disoccupazione e il disagio occupazionale, incidano sui comportamenti elettorali”. Il voto del 4 marzo dunque “rispecchia u- na condizione sociale di forte difficoltà e una forte preoccupazione per il futuro”.
Questa considerazione, ampiamente dimostrata da diverse analisi e che solo il gruppo dirigente renziano si ostina a non voler comprendere, spiega anche il modo in cui hanno votato gli iscritti alla Cgil. Il 52% per il centro sinistra/sinistra; il 13% per il centro destra (con un voto alla Lega del 10%); il 33% per il M5S. Solo il 18% dichiara di essersi astenuto.
SE SI VUOLE FAR TESORO di queste analisi occorre ammettere diverse cose. Innanzitutto che un terzo dei propri iscritti che votano Cinque stelle mostra una provenienza significativa degli elettori grillini da valori di democrazia e uguaglianza. Demonizzarli senza comprenderne le ragioni non serve a molto anche se questo non significa fare sconti alle tendenze più moderate o alle posizioni ambigue in tema di immigrazione.
La Cgil, del resto, lo ha capito e anche se il suo gruppo dirigente non ammette che quel movimento possa essere un interlocutore privilegiato per formare un governo, Susanna Camusso ha mostrato come interloquire con il M5S andando a discutere con il suo gruppo parlamentare della legge di iniziativa popolare sulla Carta dei diritti del lavoro che la Confederazione ha presentato al Parlamento. La Cgil non fa dichiarazioni politiche e si fa forte della propria “autonomia” ma è sempre disposta ad ammettere che una cosa andrebbe evitata: un governo con la Lega, cioè con un partito “xenofobo”.
La seconda considerazione riguarda il Pd. Nella Cgil c’è ancora una ricca base di elettori di quel partito. Il 35% di circa 5,5 milioni di iscritti corrisponde grosso modo a due milioni di votanti, un terzo di quelli ottenuti (6,1 milioni) il 4 marzo. Nonostante Renzi, il Jobs Act, le pensioni e altre malefatte, una fetta consistente del sindacato si rivolge ancora al Partito democratico.
IL QUALE SE VOLESSE leggere questi dati potrebbe capire che per uscire dalle macerie che si è tirato addosso – con la responsabilità di un intero gruppo dirigente, non del solo Renzi – dovrebbe intraprendere una vera rifondazione guardando ai temi che hanno caratterizzato il voto del 4 marzo. Ai dirigenti renziani i riferimenti ad alcuni “v e cchietti” socialisti, come Jeremy Corbyn o Bernie Sanders, suscitano risate di scherno. Eppure una sinistra non particolarmente radicale o conflittuale, ma che voglia tenere quella denominazione, è da quella parte che dovrebbe guardare. Soprattutto se una fetta ancora importante dei suoi elettori è collocata lì.
Il voto del 4 marzo rispecchia una condizione sociale di forte difficoltà e preoccupazione per il futuro