Calcio violento Cani sciolti e società spesso complici. E le cose non cambiano
È QUASI UNA COSTANTE. Intorno a una grande partita di calcio, qualche tifoso (mi correggo: qualche imbecille) rovina la festa. E di brutto. Dopo le urla di dolore, i proclami di pace, le forti sanzioni stabilite dagli organi competenti, la volta successiva, o quella subito dopo, siamo di nuovo punto e a capo. Eppure ogni società e ogni tifoseria dovrebbero avere la carta d’identità dei facinorosi, coloro che inneggiano alla violenza con scritte, cori e spranghe.
Ma vige da nord a sud la famigerata omertà. Il problema non è solo di casa nostra, ma questa non può essere una giustificazione per sminuire i fattacci che si registrano sui campi di calcio o nelle immediate vicinanze. Tutti i provvedimenti finora adottati hanno sortito lo stesso beneficio dell’acqua tiepida contro la febbre da cavallo.
FABIO SÌCARI GENTILE FABIO, la sua analisi è più che corretta. Mi permetto solo di contestare l’incipit: “Quasi una costante”. Non è vero, per fortuna. Ciò che è accaduto a Liverpool, ovviamente, è un fatto criminale di una gravità estrema, ma trenta/quaranta anni fa, mi creda, all’esterno – ma soprattutto all’interno – di uno stadio, la probabilità di trovarsi coinvolti in episodi di violenza era tendenzialmente più elevata. Questo per dire che il problema della violenza nel calcio è antico. Lei scrive giustamente che “ogni società e ogni tifoseria dovrebbero avere la carta d’identità dei facinorosi, coloro che inneggiano alla violenza con scritte, cori e spranghe”. La questione è che spesso i club le hanno ma preferiscono – come dimostrano le indagini della Procura di Torino sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nella curva della Juventus – evitare grane in nome del quieto vivere.
Anche il movimento ultras, che – indipendentemente da come lo si giudichi – ha avuto un ruolo nella storia italiana (e non solo) degli ultimi cinquant’anni, è in netto declino. Quelle che un tempo erano tribù urbane che sceglievano lo stadio come luogo di espressione e campo di battaglia, hanno lasciato spazio a bande (quasi sempre) di estrema destra che alla fede calcistica hanno affiancato interessi criminali e commerciali. Questo non significa che si stesse meglio quando si stava peggio, ma almeno c’erano più coordinate.
Detto questo, è ovvio che il problema è culturale. Altrimenti la sola risposta non potrà che essere la repressione (cioè “l’acqua tiepida contro la febbre da cavallo”) che purtroppo viene sempre un attimo dopo la prevenzione.
STEFANO CASELLI