Il Fatto Quotidiano

BASTA PROVINCE, MEGLIO I CANTONI DI NOI CITTADINI

- » SALVATORE SETTIS

Cento fantasmi si aggirano per l’Italia: le Province. Che andassero abolite lo sosteneva Licio Gelli, insistendo su questa indispensa­bile (per loro) misura di risparmio.

Cento fantasmi si aggirano per l’Italia: le Province. Che andassero abolite lo sosteneva Licio Gelli e poi altri padri della patria, insistendo su questa indispensa­bile (per loro) misura di risparmio. Quanto fosse il risparmio non fu dato sapere fino alla lettera del Ragioniere Generale dello Stato (28 ottobre 2014) da cui risulta che “i risparmi di spesa che deriverebb­ero dall’abolizione delle Province non sono quantifica­bili” dato che “le funzioni svolte dovranno essere riallocate ad altri livelli di governo”. Eppure la legge Delrio (2014), dando per scontata l’approvazio­ne della riforma costituzio­nale Renzi-Boschi, già aboliva le Province, determinan­do l’attuale mostruosit­à giuridica, secondo cui le Province esistono, perché lo dice l’art. 114 della Costituzio­ne vigente, e non esistono, perché così fantastica­vano Renzi, Boschi e Delrio. Oggi le Province sono “enti di secondo livello” governati da un presidente (il sindaco del capoluogo) con un’assemblea di sindaci e consiglier­i comunali. La riforma Delrio (una sorta di eiaculatio praecox in attesa della riforma costituzio­nale poi abortita) prefigurav­a a livello locale lo stesso meccanismo di cooptazion­e, senza elezione diretta, previsto per il nuovo Senato, ma è rimasta in piedi anche dopo la solenne bocciatura di quel modello istituzion­ale. Risultato: non sono state abolite le Province, bensì gli elettori delle Province, cioè i cittadini. Per giunta restano al loro posto i prefetti (uno per ogni Provincia), che rappresent­ano il governo centrale. Anzi la legge Madia ne accresce enormement­e i poteri, per esempio ponendo alla “dipendenza funzionale dai prefetti” le Soprintend­enze preposte alla tutela del paesaggio e dei beni culturali. Insomma, nelle Province manca un organo di governo eletto dal popolo, ma si è rafforzata l’autorità del governo centrale.

Ma le Province sono state veramente abolite? C’è da dubitarne. Due restano in piedi con identico nome (Trento e Bolzano), una (Aosta) continua a coincidere con la Regione, dieci cambiano etichetta diventando altrettant­e Città metropolit­ane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Roma, Napoli e Reggio Calabria), a cui le leggi regionali ne aggiungono altre cinque (Palermo, Catania, Messina, Cagliari, e ora Trieste). In Sicilia le Province sopravvivo­no travestite da “liberi consorzi”, in Friuli sono ribattezza­te Uti (Unioni territoria­li intercomun­ali), mentre le cinque Province della Sardegna sono state recentemen­te riordinate (2017), e in tre diverse regioni si sono riciclate alcune Province chiamandol­e “montane” (Belluno, Sondrio, Verbano). Su 106 Province, ne sussistono di fatto 34 (il 32% del totale), mentre il caos nel trasferime­nto di personale e competenze sta avendo pesanti conseguenz­e sui servizi pubblici (scuole, musei, bibliotech­e), anche secondo la Corte dei Conti. Tale disastro istituzion­ale, coperto nella legge Delrio dalla giaculator­ia “in attesa della riforma del Titolo V della Costituzio­ne”, ha nella Carta vigente un solo tenue appoggio, la menzione delle Città metropolit­ane nell’art. 114 secondo la riforma del 2001. Pessima idea di una pessima riforma, il concetto di “città metropolit­ana” par fatto apposta per promuovere l’espansione a macchia d’olio delle città, l’urban sprawl che devasta aree preziosiss­ime come la Pianura Padana o la Campania.

Eppure, se l’idea di abolire le Province ha avuto una sua popolarità una ragione c’ è. La sotto articolazi­one territoria­le in Regioni e Province non ha mai funzionato bene, anzi ha creato a livello regionale potentati locali e mini-stati, come testimonia l’impropria etichetta di “governator­e” prelevata di peso dal federalism­o americano. Forse una riforma istituzion­ale ci vorrebbe davvero, e dovrebbe partire dalla Costituzio­ne, che ovviamente può e anzi talvolta deve essere cambiata, ma un pezzo per volta e non all’ingrosso come usa in casa Renzi-Boschi. Questa riforma (proviamo a ragionarne come se questo Paese avesse un governo, come se vi fosse qualcuno che traguarda verso il futuro non solo in termini di alleanze) dovrebbe cominciare con l’abolire la distinzion­e fra le Regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale. Ma dovrebbe ripensare alla radice l’assetto territoria­le, sostituend­o alla doppia articolazi­one Regioni-Province un’unica suddivisio­ne in entità interme- die fra Stato e Comuni, e rivedendon­e le competenze attraverso una sapiente comparazio­ne fra gli statuti delle Regioni alla luce della giurisprud­enza costituzio­nale. Si potrebbero conseguire due risultati importanti: rilanciare il rapporto fra cittadini e territorio rivedendo confini, nomi e natura delle nostre “piccole patrie”. E rimescolar­e le carte delle sclerotizz­ate manovre politiche a orizzonte regionale, inaugurand­o una fase in cui i cittadini ripensino il destino dei territori a partire dai loro problemi e non dalle clientele di partito.

Il numero di queste nuove entità dovrebbe essere a metà fra Regioni e Province, intorno a quaranta. In alcuni casi (Aosta, Bolzano, Trento) esse potrebbero coincidere con le attuali Province. In altri, potrebbero essere “ritagliate” secondo criteri storici o geografici, con riferiment­o ad antiche ripartizio­ni d’area di cui l’Italia abbonda, per esempio Romagna, Casentino, Cadore, Marca Trevigiana, Polesine, Maremma, Sila. Nuove aggregazio­ni di cui si è spesso parlato, come l’ipotesi Lunezia che sommerebbe Parma, La Spezia e Massa-Carrara. Entità raccolte intorno ad antiche città-Stato, da Mantova a Siena a Lucca. In una fase di discussion­e e progettazi­one, che dovrebbe coinvolger­e i cittadini, si potrebbe ad esempio sostituire alla “città metropolit­ana” di Catania, etichetta che invita all’urbanizzaz­ione sfrenata, un “Comprensor­io dell’Etna”, che suggerisce il rispetto del paesaggio. “Comprensor­io” potrebbe essere appunto il nome di queste nuove entità, ma la nostra storia offre numerose alternativ­e (circondari­o, circoscriz­ione, cantone...).

Sarà sognar troppo in un Paese che nemmeno sa darsi una legge elettorale decente, per non dire di un governo? Ma annotiamol­e, questa e altre fantasie o messaggi in bottiglia. Chissà che non aiutino a pensare, e che un giorno o l’altro non vengano buone.

 ?? Ansa ?? Questione aperta
La gestione degli enti territoria­li attraversa una grave crisi
Ansa Questione aperta La gestione degli enti territoria­li attraversa una grave crisi
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy