Gladio, le Br e le soffiate dello Stato contro Moro
Il rapimento di Aldo Moro ha avuto due dimensioni: la prima relativa alla gestione del prigioniero che seguì le procedure di un normale sequestro di persona; la seconda, di carattere spionistico-informativo, funzionale a raccogliere il maggior numero possibile di dati sensibili sulla sicurezza interna dell’Italia e quella atlantica, oltre, ovviamente, a notizie sulle stragi e sugli scandali, che avevano caratterizzato la vita politica nazionale negli ultimi trent’anni. A drammatizzare la situazione concorse il 29 settembre 1978, dopo la parallela consegna delle lettere di Moro al suo collaboratore Nicola Rana e a Francesco Cossiga, il fatto che le Brigate rosse vollero creare le condizioni per istituire un canale di ritorno da dentro a fuori la prigione e si impegnarono a tutelarne il segreto. Non abbiamo la certezza che questo canale di ritorno abbia funzionato, ma sicuramente l’antiterrorismo lo temette e lo stesso Moro era convinto nelle sue lettere che fosse attivo.
Dalla sera del 29 marzo 1978, l’antiterrorismo si preoccupò in particolare di due aspetti. Anzitutto, di abbassare l’attendibilità dell’ostaggio avviando una spietata campagna di denigrazione della sua persona giudicata drogata, matta o in preda alla sindrome di Stoccolma e priva di qualsiasi informazione sensibile. Naturalmente, come in seguito lo stesso ministro Francesco Cossiga ammise e il vicedirettore del Sismi Fulvio Martini ribadì, si trattò di un comune espediente di controinformazione con l’obiettivo di sminuire il valore del prigioniero e dunque di depotenziare il ricatto brigatista. La seconda strada fu quella di provare a intercettare le lettere del prigioniero combattendo una guerra senza quartiere con la magistratura e con gli stessi familiari e collaboratori di Moro. Il timore era che l’esistenza di una nuova lettera, sfuggita a ogni controllo e giunta a destinazione, potesse stabilire un altro canale di comunicazione, quello effettivo, ancora più riservato del precedente, ma completamente autonomo.
IL PUNTO STRATEGICOera che nella prigione si era aperta una falla informativa che andava chiusa. Il solo sospetto che fosse attiva rendeva la dimensione spionistico-informativa del sequestro un’incognita incontrollabile perché l’anomalia della vicenda italiana risiedeva nel fatto che un ex presidente del Consiglio e futuro capo di Stato non era stato ucciso, come tante volte avvenuto nella storia, ma preso in ostaggio, un evento questo eccezionale, e per di più sottoposto a un interrogatorio dalla durata indefinita e dalle modalità e finalità sconosciute.
SUL PIANO della sicurezza internazionale, l’aspetto principale riguardò l’esistenza della struttura“Sta y-beh ind ”, un’ organizzazione atlantica allora segreta attiva in tutta Europa e in Italia denominata Gladio. Le sue attività nel 1978 erano conosciute soltanto a pochi vertici militari e politici informati soltanto dopo avere raggiunto un determinato livello di carriera o di responsabilità istituzionale. Il tema entrò frontalmente in gioco il 10 aprile quando le Brigate rosse decisero di rendere pubblica la parte degli interrogatori di Moro, il cosiddetto “memoriale”, dedicata a Paolo Emilio Taviani. I giornali allora posero l’accento sulla stranezza del coinvolgimento da parte di Moro di questa personalità ormai defilata dalla vita pubblica attiva, ma non potevano sapere che egli era stato l’istitutore, il garante e il responsabile politico di Gladio in Italia dalla metà degli anni Cinquanta in poi. Non è difficile immaginare con quale preoccupazione pochi e selezionati interlocutori italiani ed esteri accolsero la notizia che le Brigate rosse, mediante Moro, avessero preso di mira proprio questa figura. Riguardo a Gladio esistono due episodi che provano come la questione fosse centrale. Il primo è un furibondo scontro, che in quei giorni vide opporsi il ministro della Difesa Attilio Ruffini e il vicecapo del Sismi Martini quando quest’ultimo si accorse che dalla cassaforte del ministero erano scomparsi dei documenti segreti che sarebbero riapparsi al loro posto soltanto nel luglio 1980. L’allora responsabile militare di Gladio, il generale Paolo Inzerilli, negli anni Novanta, ha testimoniato che nella documentazione sparita e da lui re- datta “c’erano tutti i segreti della struttura supersegreta della Nato Stay-behind”, un dossier “che conteneva segreti di enorme importanza, allora a conoscenza di pochi eletti”.
Questo episodio, se non dimostra che quei documenti entrarono nella disponibilità delle Brigate rosse, rivela però che le massime autorità dello Stato lo sospettarono fortemente e si regolarono di conseguenza. Tra l’altro, i sequestratori si mostrarono interessati a questi temi, prova ne sia che, tra le carte trovate in via Monte Nevoso nell’ottobre 1978, si rinvenne un dattiloscritto di 17 fogli riflettente la strutturazione e la consistenza delle forze Nato a livello europeo.
Il secondo episodio riguarda la formula utilizzata nel 1990 da un anonimo archivista della Digos di Roma che, per catalogare dei materiali ritrovati in via Monte Nevoso nell’ottobre di quell’anno, ritenne ragionevole scrivere “Sequestro Moro. Via Montenevoso. Elenchi appartenenti organizzazione Gladio”. In questo faldone i nomi in ordine alfabetico degli aderenti alla struttura si trovavano su dodici pagine che recavano l’eloquente intestazione dattiloscritta “Moroelenco”. Un appunto manoscritto del 2 gennaio 1991 collegato al faldone recitava “Fare Cr (n.b. cartellini di riferimento) per tutti i nominativi, comprese le date di nascita, al fascicolo “Sequestro Moro via Montenevoso elenchi”. L’originale del fascicolo, classificato “segretissimo” si trova in cassaforte (inserire anche questa annotazio ne)”. Tali documenti lasciano supporre che in via Monte Nevoso siano stati recuperati anche degli elenchi di gladiatori entrati in possesso delle Brigate rosse durante il rapimento.
L’APERTURA della falla informativa si registrò il 29 marzo 1978; il 1° aprile il dipartimento di Stato statunitense autorizzò la missione in Italia del consulente Steve Pieczenik, il quale atterrò a Roma il 3 aprile trovando alloggio presso l’hotel Excelsior, lo stesso in cui risiedeva il piduista Licio Gelli quando si trovava nella capitale che quindi poteva agevolmente informare sull’andamento delle indagini. Il 15 aprile i brigatisti dichiararono che l’interrogatorio di Moro era terminato e l’ostaggio condannato a morte. Lo stesso giorno Pieczenik rientrò negli Stati Uniti dopo meno di due settimane di missione.
Gli estremi cronologici della sua missione rivelano che, intorno al 15 aprile, l’antiterrorismo ritenne di essere riuscito a chiudere la falla informativa che sospettava si fosse aperta il 29 marzo, almeno per l’aspetto concernente la sfera atlantica. Iniziò allora una seconda fase del sequestro Moro, in cui la partita non riguardò più la dimensione spionistica dell’operazione, ma la gestione dell’ostaggio. Questo secondo periodo si concluse, il 9 maggio di quarant’anni fa, con la morte del prigioniero e la scomparsa degli originali dei suoi scritti, proprio quando Moro riteneva di essere giunto a un passo dalla liberazione, attesa nelle stesse ore anche da Paolo VI e dai suoi principali collaboratori.
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