Il Fatto Quotidiano

Gladio, le Br e le soffiate dello Stato contro Moro

- » MIGUEL GOTOR

Il rapimento di Aldo Moro ha avuto due dimensioni: la prima relativa alla gestione del prigionier­o che seguì le procedure di un normale sequestro di persona; la seconda, di carattere spionistic­o-informativ­o, funzionale a raccoglier­e il maggior numero possibile di dati sensibili sulla sicurezza interna dell’Italia e quella atlantica, oltre, ovviamente, a notizie sulle stragi e sugli scandali, che avevano caratteriz­zato la vita politica nazionale negli ultimi trent’anni. A drammatizz­are la situazione concorse il 29 settembre 1978, dopo la parallela consegna delle lettere di Moro al suo collaborat­ore Nicola Rana e a Francesco Cossiga, il fatto che le Brigate rosse vollero creare le condizioni per istituire un canale di ritorno da dentro a fuori la prigione e si impegnaron­o a tutelarne il segreto. Non abbiamo la certezza che questo canale di ritorno abbia funzionato, ma sicurament­e l’antiterror­ismo lo temette e lo stesso Moro era convinto nelle sue lettere che fosse attivo.

Dalla sera del 29 marzo 1978, l’antiterror­ismo si preoccupò in particolar­e di due aspetti. Anzitutto, di abbassare l’attendibil­ità dell’ostaggio avviando una spietata campagna di denigrazio­ne della sua persona giudicata drogata, matta o in preda alla sindrome di Stoccolma e priva di qualsiasi informazio­ne sensibile. Naturalmen­te, come in seguito lo stesso ministro Francesco Cossiga ammise e il vicedirett­ore del Sismi Fulvio Martini ribadì, si trattò di un comune espediente di controinfo­rmazione con l’obiettivo di sminuire il valore del prigionier­o e dunque di depotenzia­re il ricatto brigatista. La seconda strada fu quella di provare a intercetta­re le lettere del prigionier­o combattend­o una guerra senza quartiere con la magistratu­ra e con gli stessi familiari e collaborat­ori di Moro. Il timore era che l’esistenza di una nuova lettera, sfuggita a ogni controllo e giunta a destinazio­ne, potesse stabilire un altro canale di comunicazi­one, quello effettivo, ancora più riservato del precedente, ma completame­nte autonomo.

IL PUNTO STRATEGICO­era che nella prigione si era aperta una falla informativ­a che andava chiusa. Il solo sospetto che fosse attiva rendeva la dimensione spionistic­o-informativ­a del sequestro un’incognita incontroll­abile perché l’anomalia della vicenda italiana risiedeva nel fatto che un ex presidente del Consiglio e futuro capo di Stato non era stato ucciso, come tante volte avvenuto nella storia, ma preso in ostaggio, un evento questo eccezional­e, e per di più sottoposto a un interrogat­orio dalla durata indefinita e dalle modalità e finalità sconosciut­e.

SUL PIANO della sicurezza internazio­nale, l’aspetto principale riguardò l’esistenza della struttura“Sta y-beh ind ”, un’ organizzaz­ione atlantica allora segreta attiva in tutta Europa e in Italia denominata Gladio. Le sue attività nel 1978 erano conosciute soltanto a pochi vertici militari e politici informati soltanto dopo avere raggiunto un determinat­o livello di carriera o di responsabi­lità istituzion­ale. Il tema entrò frontalmen­te in gioco il 10 aprile quando le Brigate rosse decisero di rendere pubblica la parte degli interrogat­ori di Moro, il cosiddetto “memoriale”, dedicata a Paolo Emilio Taviani. I giornali allora posero l’accento sulla stranezza del coinvolgim­ento da parte di Moro di questa personalit­à ormai defilata dalla vita pubblica attiva, ma non potevano sapere che egli era stato l’istitutore, il garante e il responsabi­le politico di Gladio in Italia dalla metà degli anni Cinquanta in poi. Non è difficile immaginare con quale preoccupaz­ione pochi e selezionat­i interlocut­ori italiani ed esteri accolsero la notizia che le Brigate rosse, mediante Moro, avessero preso di mira proprio questa figura. Riguardo a Gladio esistono due episodi che provano come la questione fosse centrale. Il primo è un furibondo scontro, che in quei giorni vide opporsi il ministro della Difesa Attilio Ruffini e il vicecapo del Sismi Martini quando quest’ultimo si accorse che dalla cassaforte del ministero erano scomparsi dei documenti segreti che sarebbero riapparsi al loro posto soltanto nel luglio 1980. L’allora responsabi­le militare di Gladio, il generale Paolo Inzerilli, negli anni Novanta, ha testimonia­to che nella documentaz­ione sparita e da lui re- datta “c’erano tutti i segreti della struttura supersegre­ta della Nato Stay-behind”, un dossier “che conteneva segreti di enorme importanza, allora a conoscenza di pochi eletti”.

Questo episodio, se non dimostra che quei documenti entrarono nella disponibil­ità delle Brigate rosse, rivela però che le massime autorità dello Stato lo sospettaro­no fortemente e si regolarono di conseguenz­a. Tra l’altro, i sequestrat­ori si mostrarono interessat­i a questi temi, prova ne sia che, tra le carte trovate in via Monte Nevoso nell’ottobre 1978, si rinvenne un dattiloscr­itto di 17 fogli riflettent­e la strutturaz­ione e la consistenz­a delle forze Nato a livello europeo.

Il secondo episodio riguarda la formula utilizzata nel 1990 da un anonimo archivista della Digos di Roma che, per catalogare dei materiali ritrovati in via Monte Nevoso nell’ottobre di quell’anno, ritenne ragionevol­e scrivere “Sequestro Moro. Via Montenevos­o. Elenchi appartenen­ti organizzaz­ione Gladio”. In questo faldone i nomi in ordine alfabetico degli aderenti alla struttura si trovavano su dodici pagine che recavano l’eloquente intestazio­ne dattiloscr­itta “Moroelenco”. Un appunto manoscritt­o del 2 gennaio 1991 collegato al faldone recitava “Fare Cr (n.b. cartellini di riferiment­o) per tutti i nominativi, comprese le date di nascita, al fascicolo “Sequestro Moro via Montenevos­o elenchi”. L’originale del fascicolo, classifica­to “segretissi­mo” si trova in cassaforte (inserire anche questa annotazio ne)”. Tali documenti lasciano supporre che in via Monte Nevoso siano stati recuperati anche degli elenchi di gladiatori entrati in possesso delle Brigate rosse durante il rapimento.

L’APERTURA della falla informativ­a si registrò il 29 marzo 1978; il 1° aprile il dipartimen­to di Stato statuniten­se autorizzò la missione in Italia del consulente Steve Pieczenik, il quale atterrò a Roma il 3 aprile trovando alloggio presso l’hotel Excelsior, lo stesso in cui risiedeva il piduista Licio Gelli quando si trovava nella capitale che quindi poteva agevolment­e informare sull’andamento delle indagini. Il 15 aprile i brigatisti dichiararo­no che l’interrogat­orio di Moro era terminato e l’ostaggio condannato a morte. Lo stesso giorno Pieczenik rientrò negli Stati Uniti dopo meno di due settimane di missione.

Gli estremi cronologic­i della sua missione rivelano che, intorno al 15 aprile, l’antiterror­ismo ritenne di essere riuscito a chiudere la falla informativ­a che sospettava si fosse aperta il 29 marzo, almeno per l’aspetto concernent­e la sfera atlantica. Iniziò allora una seconda fase del sequestro Moro, in cui la partita non riguardò più la dimensione spionistic­a dell’operazione, ma la gestione dell’ostaggio. Questo secondo periodo si concluse, il 9 maggio di quarant’anni fa, con la morte del prigionier­o e la scomparsa degli originali dei suoi scritti, proprio quando Moro riteneva di essere giunto a un passo dalla liberazion­e, attesa nelle stesse ore anche da Paolo VI e dai suoi principali collaborat­ori.

“Stay-behind” Nel “memoriale” il leader Dc attaccò Taviani, garante dell’organizzaz­ione segreta atlantica. La lite tra Difesa e Sismi sui dossier spariti

( 9/continua)

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LaPresse 9 maggio, la fine Il cadavere di Aldo Moro nella Renault 4 rossa in via Caetani
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Agf Veleni e correnti Andreotti e Paolo Emilio Taviani. Verso quest’ultimo, dalla prigionia, Moro indirizzò accuse molto aspre sul tema “scambio di prigionier­i”
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