Il Fatto Quotidiano

Saipem, il falò da 14 miliardi che fa infuriare gli investitor­i

- » FABIO PAVESI

falò da 14 miliardi di euro di valore azionario con migliaia di soci che hanno visto svanire il loro investimen­to. È l’immagine più rilevante della saga che vede protagonis­ta, ormai da più di cinque anni, la Saipem, il colosso italiano nell’esplorazio­ne del greggio che da quel primo, inaspettat­o, allarme utili del gennaio 2013 non si è mai ripresa. Trasforman­dosi da titolo solido, amato dai cassettist­i di Borsa, nel peggiore degli investimen­ti. E questo tra presunti bilanci gonfiati; inchieste e processi per tangenti; aumenti di capitale oggi contestati. E con l’Eni, storico socio forte e controllan­te del gruppo delle piattaform­e e delle escavazion­i petrolifer­e, che non ha trovato di meglio che deconsolid­are la società dai suoi conti facendo comprare, nel pieno della crisi, il 12,5% del capitale di Saipem alla Cassa Depositi e Prestiti che si è prestata ad acquistare a caro prezzo una società dai conti sempre più traballant­i.

LA CONSOB, dopo un anno di inchiesta, ha bocciato il bilancio 2016 del gruppo. Per l’Autorità di Vigilanza quel bilancio non era veritiero, dato che molte delle svalutazio­ni pesanti, apportate in quell’anno avrebbero dovuto essere effettuate nei bilanci precedenti. Saipem si è rivolta al Tar contro la decisione dell’Authority che getta un cono d’o m br a sull’aumento di capitale da 3,5 miliardi che Saipem effettuò a inizio 2016. Se le svalutazio­ni delle attività decotte, che fecero chiudere i conti del 2016 con un buco di oltre 2 miliardi, fossero state apportate, come sostiene Consob, l’anno prima le condizioni di quell’aumento sarebbero cambiate. Le richieste di soldi al mercato erano basate su una documentaz­ione contabile non corretta.

E a fine del 2015 arriva la decisione di Eni di liberarsi del fardello Saipem. Eni rischiava infatti un serio contraccol­po dal disastro. La controllat­a aveva dato segnali di scricchiol­io a inizio del 2013. Col primo allarme utili che provocò un calo violento in Borsa, i vertici di allora di Saipem dichiarava­no che la società avrebbe dimezzato i margini operativi. Colpa della crisi del greggio si diceva. Con il calo del prezzo del petrolio le oil company hanno tagliato drasticame­nte gli investimen­ti in ricerca di nuovi pozzi, di fatto il core business di Saipem. Questa la spiegazion­e ufficiale. Ma dietro alla versione di mercato c’era anche, come ammisero i vertici successivi, una rappresent­azione contabile quanto meno allegra: pur di tenere alti i ricavi si acquisivan­o commesse a bassa o nulla marginalit­à; pur di far figurare una crescita dei volumi d’affari la società si accontenta­va di perdere sui lavori.

A METÀ DEL 2013 arriva infatti l’allarme sul bilancio. Altra caduta in Borsa e nuovi ridimensio­namenti della redditivit­à. Dopo anni di utili vicini al miliardo, Saipem presenta le prime perdite. Nel 2013 per 159 milioni; l’anno dopo altri 230 milioni, ben 800 milioni nel 2015. Ed è a fine di quell’anno che l’Eni s’inventa la via d’uscita: vende a Cdp il 12,5% del capitale, scendendo dal 42% al 30. Si toglie la zavorra del debito e Cdp sborsa la bellezza di 903 milioni. Peccato che, come ha dimostrato Consob, i conti all’atto della vendita non erano corretti. La pulizia di bilancio successiva fa emergere una maxi-svalutazio­ne che farà perdere a Saipem ben 2 mi- liardi nel bilancio del 2016. Per Consob quella perdita andava esibita già nel 2015 quando Cdp trattava sul prezzo di acquisto. Prezzo che sarebbe stato certamente più basso rispetto ai 900 milioni versati dalla generosa Cassa pubblica. La Storia dirà che quel prezzo era stratosfer­ico. Cdp equity svaluta già nel 2016 la quota di Saipem per 170 milioni. E deve svalutare ulteriorme­nte, dato che Saipem è in carico a oltre 700 milioni, quando il valore di Borsa per quella quota non va oltre i 400 milioni.

Ora sono sul piede di guerra anche i fondi: ben 141 investitor­i istituzion­ali hanno chiesto a Saipem di essere risarciti per “un importo non specificat­o” a causa di “asseriti ritardi nell’informativ­a al mercato”. Le cause si aggiungono a quelle presentate, dall'aprile 2015, da oltre 60 fondi per complessiv­i 343 milioni, e portano a oltre 200 gli investitor­i che hanno chiesto in via stragiudiz­iale i danni lamentando una non corretta informativ­a al mercato. Parte di queste richieste si sono incanalate in due diverse cause civili. Saipem ha “rigettato ogni responsabi­lità”.

IL DISASTROè sotto gli occhi di tutti però. Nel settembre 2012, all’apice delle quotazioni di Borsa, Saipem valeva 17,6 miliardi. Oggi, dopo una ricapitali­zzazione da 3,5 miliardi, ne vale soltanto 3,2. In mezzo una forte contrazion­e degli investimen­ti petrolifer­i che ha impattato su tutto il settore ma anche le presunte tangenti in Algeria, due profit warning, le contestazi­oni Consob ai bilanci e al prospetto dell’aumento di capitale. Se la maxi-svalutazio­ne fosse stata apportata, come sostiene Consob, non nel 2016 post-operazione ma nel 2015, le condizioni dell’a umento sarebbero state più onerose per la società. I fondi si consideran­o ingannati dalle non corrette rappresent­azioni contabili. Ora la partita si sposta in Tribunale. Non ci fa una bella figura il Tesoro che tramite Eni e Cdp di fatto è sempre stato il socio di riferiment­o. Saipem ha chiuso in perdita (per altri 328 milioni) i conti del 2017 e ora tocca al neo-presidente Francesco Caio che va ad affiancare l’ad Stefano Cao provare a invertire la rotta.

Le (costose) partite di giro

Eni ha ceduto il 12,5% alla pubblica Cdp per 900 milioni. Ora ne vale meno di 400. Con i conti corretti il prezzo sarebbe stato più basso

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LaPresse Perforando terra e mari L’amministra­tore di Saipem, Stefano Cao
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