Il Fatto Quotidiano

Altro che liberismo, serve una rivoluzion­e “liberale”

- » MARCO PONTI

SERVE una forte spinta pubblica all’innovazion­e tecnologic­a. Ma il grosso dello sforzo lo deve fare il privato, finora poco propenso a innovare. Le posizioni di rendita, sia pubbliche che private, sono il vero ostacolo alla crescita economica e al calo delle disuguagli­anze a Rivoluzion­e industrial­e, che è stata strettamen­te correlata all’apertura dei mercati e all’avvento di regimi democratic­i, in Italia è arrivata non solo in ritardo, ma anche con scarsi contenuti di innovazion­e “autoctona”: anche il nostro decollo industrial­e avvenuto dopo la seconda guerra mondiale si è basato sulla produzione di massa di prodotti sviluppati altrove (automobili, elettrodom­estici ecc.).

LA STRUTTURA in d u st r i al e che ne è seguita si è basata sul lavoro a basso costo per prodotti “maturi”, e gli imprendito­ri italiani, non essendo capaci di innovare, hanno anche puntato molto sugli aiuti pubblici e le svalutazio­ni finché hanno potuto, se si fa eccezione per alcune nicchie iper-specializz­ate ma a basso contenuto tecnologic­o. Una struttura la cui fragilità è apparsa molto evidente dopo l’esplosione del debito, l’entrata nell’euro, la crisi del 2008 e la concorrenz­a di altre aree con lavoro a costo ancora più basso (con effetti miracolosi per quei lavoratori).

Le dimensioni dello Stato sociale sono cresciute in proporzion­e alla rapida crescita del reddito del Dopoguerra, ma quando questa si è arrestata, ovviamente le risorse che avevano generato quello Stato sociale non ne hanno consentito una crescita ulteriore. I bisogni invece sono cresciuti, per far fronte a problemi nuovi: la crisi occupazion­ale stessa, il basso tasso di attività della popolazion­e, e il suo invecchiam­ento. I nodi sono venuti al pettine.

Altro che struttura neoliberis­tica trionfante, come alcuni sostengono senza alcun dato di conforto, alle loro tesi tutte ideologich­e: la pressione fiscale è al 45% del Pil, tra le più alte del mondo, e lo Stato continua a proteggere tutti, come ai tempi della rapida crescita del reddito: sanità, scuola, trasporti, pensioni, imprese pubbliche (queste le uniche con alti salari) e private, agricoltur­a, pesca, rendita fondiaria con normative compiacent­i (questa forma di rendita ama molto i vincoli, da cui dipende, al contrario di una assurda vulgata italiana). Accanto ad alcuni effetti positivi di questa perdurante protezione, sono da sottolinea­re anche quelli disincenti­vanti, per i lavoratori protetti e le imprese poco capaci di innovare.

L’altissimo debito pubblico, frutto avvelenato di questa dissimmetr­ia di crescita, ci impedisce ovviamente di attuare politiche keynesiane

Ricette sbagliate Come il protezioni­smo anche il taglio delle tasse alle imprese non risolvereb­be lo stallo

di lungo respiro, e in caso di choc esterni (cfr. le politiche di Trump, le minacce di guerra, ecc.), rischia di rendere necessari interventi drastici di breve periodo, che hanno generalmen­te effetti devastanti proprio sulle categorie più deboli. E come non vedere che l’onda protezioni­stica nel mondo arriva soprattutt­o da una destra bellicosa ed egoi-

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