Il Fatto Quotidiano

Da cosa partire

- » MARCO TRAVAGLIO

L’altro giorno, in un quartiere popolare alla periferia di Roma, è stato arrestato un cingalese di 50 anni con l’accusa di aver molestato, baciando sulla bocca e/ o palpando nelle parti intime, tre bambine fra gli 8 e i 10 anni. È un clandestin­o denunciato un anno fa per non aver ottemperat­o a un decreto di espulsione. Dunque, se lo Stato funzionass­e, questo gentiluomo non sarebbe più in Italia da un pezzo e le tre bambine sarebbero inviolate. Invece nessuno fa rispettare la legge: infatti l’Italia è piena di stranieri che vanno a zonzo in barba al decreto di espulsione o al foglio di via, che ovviamente hanno distrutto. Quando vengono scoperti, rispondono che non hanno i soldi per pagarsi il viaggio aereo verso il paese d’origine, al che il poliziotto è quasi sempre costretto a ribattere: “Nemmeno noi li abbiamo per il rimpatrio forzato”. Quanti siano esattament­e in quel “limbo” è impossibil­e saperlo: molti cambiano continuame­nte identità, esibiscono documenti falsi o fingono di non averne. Il che è già difficile da spiegare ai cittadini comuni: figurarsi ai genitori delle bimbe molestate da un sospetto pedofilo che non dovrebbe essere il loro vicino di casa.

Nel gennaio scorso, il Tribunale di Milano ha condannato a 10 anni Edgar Bianchi, il violentato­re seriale detto “il maniaco dell’ascensore”, che nel 2006 se n’era buscati altri 12 definitivi per una ventina di aggression­i sessuali, ma ne aveva scontati solo 8: 3 glieli aveva levati l’indulto, il quarto era scomparso grazie alle pene alternativ­e previste dalla nostra generosiss­ima legge penitenzia­ria. Nel 2014, tornato libero, aveva subito ricomincia­to, abusando di una tredicenne, puntata all’uscita da scuola e seguita fino al pianerotto­lo di casa.

Sette mesi fa la Cassazione ha chiuso con una sentenza di prescrizio­ne il processo per gli abusi sessuali commessi nel 2002 su una minorenne torinese prima dal padre e poi dagli “educatori” della comunità che la ospitava. Sedici anni non sono bastati per i tre gradi di giudizio, un po’ per le solite lungaggini processual­i, un po’ perché qui la prescrizio­ne non parte quando il reato viene scoperto, ma quando viene commesso. Un anno per le indagini, cinque per il processo di primo grado col rito“abbreviato ”( tutti condannati ), una lunga pausa prima dell’appello, altri tre anni per la sentenza di secondo grado (tutti ricondanna­ti) e la solita prescrizio­ne in Cassazione. Nel febbraio 2017, sempre a Torino, il Pg e i giudici d’appello avevano chiesto scusa al popolo italiano per un caso analogo: una prescrizio­ne in secondo grado per un grave stupro di 20 anni prima.

Ea marzo di un anno fa la Cassazione aveva evitato in extremis la prescrizio­ne di un processo sulle violenze subìte 17 anni prima da una ragazzina che si era poi suicidata. Ora, se queste cose accadono in uffici giudiziari come quelli torinesi, mediamente efficienti, meno oberati e “scoperti” rispetto a quelli di certe zone del Sud, le giaculator­ie sulla “giustizia più rapida” lasciano il tempo che trovano. La domanda di giustizia dei cittadini, dinanzi a delitti così odiosi, non può aspettare le risorse per gli aumenti di personale e per le grandi riforme taglia-contenzios­o. L’unica risposta che si può e deve dare subito, a costo zero, è una mini-riforma di poche righe che faccia partire la prescrizio­ne con la scoperta del reato e la blocchi per sempre al momento del rinvio a giudizio.

Certezza della pena, prescrizio­ne, immigrati irregolari che non vengono espulsi e magari ne approfitta­no per delinquere: a questo pensano i cittadini quando sentono parlare di “giustizia”. Almeno i cittadini onesti, che si calano automatica­mente nei panni delle vittime dei reati e si infuriano a bestia quando sentono i politici parlare (sempre) la lingua dei colpevoli. Chiunque ci abbia governato finora parlava solo di sovraffoll­amento delle carceri (con indulti, amnistie, condoni e leggi svuota-celle), di intercetta­zioni (per limitarne l’uso e la pubblicazi­one), di custodia cautelare (per restringer­e le cosiddette “manette facili”), di pene alternativ­e (per mandare fuori o non mandar dentro più delinquent­i possibile), di reati da depenalizz­are (i loro e quelli dei loro amici), di prescrizio­ne ( per accorciarl­a o lasciarla com’era), di “garantismo” (svilito a gargarismo sinonimo di impunità). Ora, per la prima volta, l’agenda del governo si ribalta, nelle priorità e nel linguaggio. Il contratto giallo-verde stipulato da Di Maio e Salvini, con tutti i suoi limiti, eccessi, forzature e assurdità, non ha paura di parlare di più carceri e più carcere, meno prescrizio­ni, pene più severe e più certe (non solo per i poveracci, ma anche per evasori e corrotti), più mezzi a chi i reati li deve scoprire e punire, meno garanzie per chi commette reati e più garanzie per chi li denuncia e per chi li subisce. I puristi dei massimi sistemi, del sesso degli angeli e del giudiziari­amente corretto storcono il naso con argomenti triti e tristi: il giustizial­ismo, i manettari, i forcaioli. Di questi slogan i cittadini s’infischian­o: se vedranno qualche delinquent­e a spasso in meno, qualche irregolare espulso in più (anche per scontare la pena nel suo paese), qualche impunito in meno e una vaga somiglianz­a fra le pene scritte nelle sentenze e quelle scontate in carcere, saranno felici e grati al governo (e noi con loro, anche perché vorrà dire che il Delinquent­e è out). M5S e Lega, partiti più popolari che populisti, agli elettori dovranno presto rispondere. Se non riuscirann­o, per vincoli di bilancio, a fare tutto ciò che promettono sulle riforme costose, ma si limiterann­o ad avviarle, potranno essere perdonati. Ma, se non manterrann­o subito gli impegni a costo zero, come quelli sulla giustizia, non avranno scuse. E saranno puniti.

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