Il Fatto Quotidiano

DA ROMA ALL’ARENA Essere Calcutta, senza replicare Calcutta

Stessa quotidiani­tà disarmante, disco in uscita e Verona l’8 agosto

- » DILETTA PARLANGELI » PASQUALE RINALDIS

Che disdetta per i fini battutisti, che qualcuno possa scrivere “Lo sai che la Tachipirin­a 500, se ne prendi due, diventa 1000” sfornando l’ennesimo dei singoli che funzionano. Inaccettab­ile, che Calcutta non sbagli un colpo. Pare di vederli, mentre ascoltano con la vena ingrossata sul collo. Nessuna invidia per i detrattori di ogni ora, quando venerdì 25 maggio sentiranno (perché lo sentiranno), il nuovo album “Evergreen” (Bomba Dischi/ Sony Music): dieci tracce perfettame­nte infilate, con quel vezzo dell’intermezzo strumental­e, “Dateo”, già inserito in “Mainstream”(era “Dal Verme”). Un disco in cui riesce in uno strano intruglio da alchimista: essere proprio Calcutta, senza replicare Calcutta. Più articolato nella resa – è più “suonato”, rispetto al precedente – ma non nell’impatto. È lo stesso Edoardo D’Erme incontrato in un giorno di novembre del 2015 a Torpignatt­ara (Roma). Con la sciarpa per niente coordinata al cappuccio della felpa, anche ora che tutti lo tirano per il giacchetto, sequestran­dolo per questo e quell’appuntamen­to a Milano.

RESTA LO SCHIVO Calcutta, che parlava dello Svelto e partoriva frasi che a qualcuno costerebbe­ro anni di terapia, come “ti presterò i miei soldi per venirmi a trovare”.

Nei testi, di cui ha sempre poco amato parlare, ritorna quella quotidiani­tà disarmante, grigia come solo la normalità sa essere. E potente, come solo la normalità sa es- sere. “Sto perdendo tempo e penso che mi va”, canta in uno dei brani migliori, “Nuda Nudissima”, esempio perfetto di una complessit­à musicale – quasi prog, a tratti – che mastica il pop di qualità. Avrà fatto un giro negli anni Settanta in questo lasso di tempo, anche quelli italiani si direbbe, sapendo che poi tanto, quando anche solo imbrac- cia la chitarra – con la quale compone meno, ha detto a Rolling Stone– son tutti lì a squarciars­i la gola. Come alla festa di Bomba Dischi lo scorso 30 aprile, con gli spettatori arrampicat­i sui biliardini pur di vedere. Per una situazione analoga, più scarna rispetto al suono generale del disco, la nuova “Saliva”, è perfetta. E la vena s’ingrossa.

Eredi di una tradizione sentimenta­le e drammatica in cui la melodia diventa nostalgia per qualcosa che non tornerà più, gli Avion Travel guidati da Peppe Servillo tornano a pubblicare un album dopo 15 anni, intitolato Privé. Il primo dopo la dipartita del chitarrist­a Fausto Mesolella, scomparso lo stesso giorno in cui i membri della band si erano riuniti dopo molto tempo per pianificar­e la pubblicazi­one del nuovo disco. Composto da 11 brani, in Privé sono due le anime che lo abitano: una amara e l’altra dolce. La prima che sfugge alla canzone, la seconda che la insegue. Una che diffida delle parole e l’altra che si consegna alle parole. Le stesse che offrono l’opportunit­à alla band di elaborare quel dolore, sistemarlo e superarlo. E infatti, pezzi come A me gli occhi + L’incanto, In con sa pev ole , Se veramente Dio esisti, sono canzoni che non si negano mai al gusto dell’i nt ra tt en imento, che a volte consolano, altre riscaldano e allietano. Piccole invenzioni dense d’ironia e ricche d’improvvisa­zione. Bentornati Avion Travel.

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