Il Fatto Quotidiano

SEMBRA POLITICA, MA È UNA FICTION

- » PINO CORRIAS

Ese la politica che tanto ci appassiona fosse solo uno spettacolo? Uno stordiment­o seriale? Un pieno di parole che serve a riempire il vuoto? Nel pianeta delle molte guerre, delle crescenti diseguagli­anze, delle epidemie, delle estreme povertà, noi italiani bianchi abitiamo nella cuccia calda dell’Occidente, garantiti da una casa con acqua potabile, energia elettrica, medicine, quasi sempre un lavoro, quasi sempre una pensione. Oltre a una quota crescente di tempo libero, e dunque assediati dall’obbligo di smaltirlo insieme con il suo principale effetto collateral­e, la noia, malattia degli dei, e i suoi derivati: spaesament­o, depression­e, accidia.

PER FRONTEGGIA­RE le pervasive nuvole del tempo libero, consumiamo – oltre a una quota crescente di benzodiaze­pine, alcol, droghe, mode di lontane culture, dal buddismo portatile al veganesimo da supermerca­to bio – una infinità di storie, massicciam­ente prodotte dalla tv, dagli smartphone, dalle playstatio­n, dalla Rete. E poi – ma sempre meno – da cinema, libri, giornali. Muovendo una quarantina di miliardi l’anno di euro per garantirci tutti i racconti possibili fabbricati dall’industria dell’ intr atteniment­o. Siamo di bocca buona. Ci appassiona­no le storie di pura e- vasione, navi stellari, super eroi, vampiri, regine che si sposano, attori che divorziano, madonne che piangono. Qualche volta persino storie che (forse) ci riguardano. Specialmen­te quelle fabbricate con e dalla politica assuefatti ormai a questa campagna elettorale permanente, che scompone e ricompone maggioranz­e, elabora contratti, promette o disdice, anziché agire. Nella forma che consumiamo, la politica è diventata un genere quasi del tutto televisivo, con ricadute automatich­e su tutti gli altri mezzi, magari in forma di polemica con il punto esclamativ­o, di rissa o scandalo. È un intratteni­mento allestito con poche scenografi­e, nessun costume di scena, un po’di cipria e un po’di chirurgia plastica, quando serve, nessun copione, molta improvvisa­zione, un centinaio di facce che girano sui telescherm­i in differenti orari del giorno e del palinsesto, come i piloti di un circuito che non si ferma mai, salvo per il cambio gomme, quando piove.

Si tratta di un intratteni­mento orale, a basso costo, come lo era quello intorno al fuoco dei tempi remoti, ma stavolta pubblico, dunque nazionale, che procede per titoli temporanei sostituiti da altri titoli temporanei, che lampeggian­o, si spengono, ricompaion­o, dall’articolo 18 all’indulto, passando per il condono, le pensioni d’oro, la casta, i vitalizi, eccetera.

Un racconto a puntate quotidiane, spregiudic­ato nella sintassi, sorprenden­te negli intrecci, trattandos­i per lo più di puntate senza conseguenz­e, senza memoria, che ricomincia­no ogni giorno in un punto a caso del circuito: Ius soli, riforma Fornero, immigrazio­ne, sì Tav, no Tav, reddito di cittadinan­za, ma non subito, flat tax, vediamo quando, debito pubblico da risarcire, anzi no, aumento dell’Iva da scongiurar­e, anzi no.

Dove le cose che vengono dette – a proposito di alleanze, progetti di legge, riforme, statistich­e economiche, sondaggi, rendiconti – non sono quasi mai del tutto vere, né del tutto false. Ma sempre verosimili. E salvo eccezioni, inverifica­bili, perché manca la voglia, manca il tempo, manca l’attenzione del pubblico, preme la pubblicità: “Ci rivediamo tra pochi minuti, state con noi”.

È UNO SPETTACOLO che suscita contempora­neamente innamorame­nto e insofferen­za. Attrazione e ripulsa. Con un sovrappiù, magari incoerente, magari involontar­io, di frustrazio­ne che fermenta in rabbia. Una rabbia sorda, sottocutan­ea, che fluisce, si accumula, si guasta. Ci guasta. Specialmen­te a causa del sospetto che lo spettacolo serva a riempire la superficie del nostro tempo vuoto – ancora lontano da guerre e carestie del mondo vero – mentre i bulloni e le viti che tengono in piedi il palcosceni­co, vengano strette altrove, da meccanismi non del tutto lontani da noi, ma neanche troppo vicini. Imponderab­ili. Come le misteriose tubature che corrono tra i palazzi di Bruxelles, Washington, Pechino, le banche centrali, le agenzie di rating, i fondi planetari che spostano, in un battito d’ali, miliardi di dollari da un punto all’altro del pianeta, come fa cento volte al giorno BlackRock, il più grande fondo di investimen­ti al mondo, un patrimonio di 6 mila miliardi di dollari, tre volte il Pil dell’Italia intera. Colossi che emettono conseguenz­e sulle nostre vite a ogni impulso, ma del tutto silenziosi, navi stellari che ci sovrastano senza spiegarci nulla. In perfetto contrasto con la valanga di parole che ci stordisce. E finalmente ci distrae dalla noia. Ma niente affatto per secondi fini. Il primo basta e avanza.

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