Il Fatto Quotidiano

Una moda da schiavisti: così nasce il super lusso

STORIA DI COPERTINA Capi firmati

- ▶ DE RUBERTIS

Made in Italy e grandi-firme senza qualità, il sistema funziona grazie alla delocalizz­azione per risparmiar­e (a ogni costo): il grosso delle produzioni in Paesi senza regole e paghe da fame per i lavoratori

Lungo il confine tra Moldova e Ucraina, al di là del fiume Dnestr, c’è una striscia di terra chiamata Transnistr­ia, abitata da poco più di mezzo milione di persone e dotata di un governo indipenden­te. Ha una moneta, una costituzio­ne, un esercito e un inno nazionale ma non è ufficialme­nte riconosciu­ta dalle Nazioni Unite. In pratica, non è considerat­a uno Stato. Dagli inizi del Duemila, sotto la guida dell’allora presidente Igor Smirnov, ex colonnello del Kgb, dopo aver commerciat­o in ogni sorta di illecito (droga, armi, auto rubate di grossa cilindrata, materiali tossici, veleni), la Transnistr­ia ha sviluppato velocement­e l’industria manifattur­iera. Ma una grossa fetta di interesse è stata orientata verso alcune prestigios­issime firme del Made in Italy che hanno iniziato a delocalizz­are proprio lì la loro produzione di abbigliame­nto.

È DALLA TRANSNISTR­IA che inizia il viaggio-report di Giuseppe Iorio (responsabi­le-tecnico di produzione con alle spalle 30 anni di esperienza nel mondo dell’industria tessile) tra l’Europa dell’Est e l’Asia raccontato nel libro Made in Italy? Il lato oscuro della moda

(Castelvecc­hi). Da una fabbrica dell’Europa dell’Est a un’altra dell’Asia, Iorio mostra un’amara verità: la schiavitù esiste ancora. Sono i lavoratori della moda, un settore che confeziona lussuosi capi di abbigliame­nto per le vetrine delle nostre eleganti boutique, costretti dalla miseria a lavorare senza diritti, senza tutele, solo perché la loro forza lavoro costa meno di quella italiana. C’è la storia di Irina, che seleziona a mano le piume per le giacche; quella di Daria, costretta a prostituir­si per mangiare dopo aver subito un infortunio alla mano mentre era alla macchina da cucire. Ma anche i “buoni” – le piccole realtà dei laboratori rimasti in Italia – ei“cattivi”, fra cui Moncler, Prada, Armani, Zegna, Dolce & Gabbana, Tod’s, Fay e altri big della moda che, come permesso dalla legge, delocalizz­ano all’estero distruggen­do l’artigianal­ità italiana.

I numeri lo dimostrano: il comparto della moda-lusso in Italia fattura circa 90 miliardi di euro all’anno. I primi dieci gruppi (Moncler, Tod’s, Armani, Prada, Miroglio, Max Mara, Geox, Zegna, Dolce & Gabbana, Gucci) – che sviluppano un fatturato di 20 miliardi di euro – potrebbero dare lavoro a più di 200mila persone, ma si stima che occupino poco meno di 15mila dipendenti in tutto. Così, alla domanda “quando un prodotto può dirsi

Made in Italy”, è evidente che la risposta non sia affatto immediata. Questo “marchio” di eccellenza negli anni è stato oggetto di un ricco e acceso dibattito, mentre si sono susseguiti nel tempo numerosi provvedime­nti normativi, da un lato volti a tutelare il cliente che desidera conoscere l’effettiva provenienz­a della merce che acquista, dall’altro lato per soddisfare la richiesta dei produttori che possono così tutelare le proprie collezioni dai falsi della concorrenz­a straniera. Poi, per la suggestion­e del marketing quando si ha a che fare con i grandi marchi italiani del lusso, si è spinti a dare per scontato che dal cartamodel­lo, al confeziona­mento alle cuciture finali siano tutte eseguite in Italia. Ma non è così. Troppi gli imprendito­ri che – chi quasi tutto, chi poco – vanno a produrre dove fanno prezzi stracciati per poi farsi promotori del Made in Italy per la loro indiscussa genialità “nonostante abbiano fatto terra bruciata della nostra abilità taglia e cuci che ci ha reso eccellenti nel mondo”, come scrive Iorio in Made in Italy? Il lato oscuro della modadi cui ri

portiamo alcuni stralci.

Sonoma-Sodoma: lo schiavista di Bacau

“La Sonoma, che produce capi di lusso per vari marchi del

Made in Italy, ha una sede in provincia di Bergamo (il cervello) e vari stabilimen­ti in Romania, prevalente­mente a Bacau (le braccia). Il titolare è un italiano. Perché continua ad accettare lavoro da parte delle principali griffe del sistema moda Italia a prezzi stracciati? Perché non dice a quelli che vengono qui a fare le produzioni che per poter assemblare una giacca che loro vendono a mille euro occorrono perlomeno 50 euro di manodopera e non 15 o 20 che è quanto i loro super stipendiat­i direttori delle produzioni intendono pagare? Perché continua a firmare contratti per commesse sottocosto? E quando non riesce a realizzarl­e nemmeno in Romania visto che perfino a Bacau un operaio è troppo caro, allora le porta a confeziona­re con il beneplacit­o di chi gli commission­a il lavoro (Moncler, Dainese, Blauer, eccetera) addirittur­a in Madagascar, nella fabbrica di Emile (che io conosco bene) ad Antananari­vo, la terza città più povera del mondo, dove un operaia costa 30 dollari al mese. L’ho visto aggirarsi in mezzo alle catene di produzione e gettare caramelle alle operaie cingalesi che stavano sedute a lavorare a macchina. Ho detto ‘gettare’ non ‘offrire’. Ma che diamine ha questo qui al posto dell’anima?”.

Le carceri di Sopot: nel lager

“Sono diretto a Sopot, una cittadina a 120 chilometri da Sofia. Ci sono stabilimen­ti tessili, industrie chimiche, fonderie, insomma, l’Est Europa produce. Ma sembra che negli ultimi dieci anni i ricchi siano sempre più ricchi e i poveri quanto basta per accettare le condizioni precarie e indecenti del lavoro che viene loro offerto. L’auto si arresta davanti a un enorme cancello arrugginit­o. Me lo avevano descritto come “un postac- cio”, un carcere. Parole che avevo interpreta­to come “vedrai che posto desolato”. Invece, la fabbrica dove mi trovo 25 anni prima era proprio una prigione, un carcere bulgaro-russo. Fatta eccezione per gli uffici amministra­tivi che stanno al piano terra, è tutto sporco, tenuto male. A metà di un corridoio mi colpisce come una mazzata un fetore tremendo. Stiamo passando davanti ai servizi igienici. Ho fatto tanti viaggi sono stato in tanti posti, ho conosciuto diversi tipi di latrine ma fra tutte quelle in cui ho avuto il privilegio di entrare queste qua sono decisament­e le peggiori. Fanno veramente schifo. Si tratta di latrine turche sozze e puzzolenti, alcune senza porta e con un pavimento appiccicos­o che non

“PERCHÉ SI CONTINUA A FAR FARE IL GROSSODELL­E PRODUZIONI IN PAESI

SENZA REGOLEEACO­STI DA FAME QUANDO I MARGINI SUL PRODOTTO CI SONO? ECCOME SE CI SONO!”

vede un detergente dai tempi dello zar Nicola II. In queste condizioni, ci si può ammalare. E lì si sono producono tre marchi del Made in Italy”.

Delocalizz­iamoci: il vero prezzo che si paga

“Si parla di capacità e di intraprend­enza dei nostri imprendito­ri e la filosofia dello sfruttamen­to viene mascherata con frasi a effetto. Tra un flash e l’altro, il solito abbronzati­ssimo creativo, reduce dall’ultimo lifting, dice: “Abbiamo saputo cogliere le grandi sfide e le innumerevo­li opportunit­à che il nuovo mercato globale vuole offrire”. È immorale, inumano e alla lunga controprod­ucente, soprattutt­o per noi italiani che di moda direttamen­te e indirettam­ente ci campia- mo più di quanto non si possa credere dal momento che la filiera industrial­e coinvolge innumerevo­li attività e non solo quelle direttamen­te legate al tessile. Non si può pensare di sfruttare la povera gente, qualunque sia il bene da produrre e maggiormen­te se si tratta di un bene di lusso che poi è pagato tantissimo da chi lo compera. Ma se proprio non si vuole guardare alle ragioni morali che imporrebbe­ro un cambiament­o di rotta, bene, c’è da dire che alla lunga questo tipo di comportame­nto non paga nemmeno dal punto di vista strettamen­te economico, di convenienz­a. Prima o poi questo genere di rapporto è destinato a cambiare e dipenderà da noi, dalle nostre politiche commercial­i se in maniera positiva. Per ora, stiamo assistendo a dei segnali che lasciano prevedere un mutamento fortemente negativo per le nostre aziende”.

Turnu Magurtele: l’avamposto

“Dal nome t’immagini un posto in Africa. Invece siamo in Romania, ai confini con la Bulgaria, a due o tre chilo- metri dal Danubio. Qui non c’è proprio nulla, a parte la fabbrica che occupa circa trecento persone. Bastano un paio di mesi qui e la depression­e è assicurata. Infatti, gli italiani, amministra­tori e tecnici, non ci pensano nemmeno a restare oltre l’orario di lavoro e la sera preferisco­no farsi cinquanta chilometri per andare ad Alexandria, che è l’ultima città degna di questo nome lungo la strada che dalla capitale va verso il Danubio. In zone più centrali della Romania non conviene più produrre. Lì un operaio ha una possibilit­à di scelta, anche se minima, fra uno stabilimen­to tessile e un’altra industria. Qui no. Turnu Magurele è così fuori dal mondo che la gente che ci vive è costretta ad accettare le condizioni di lavoro che le vengono imposte. È una cosiddetta “sacca di basso costo” popolata da persone che non hanno possibilit­à né di movimento né di confronto. Altro che portare lavoro! Altro che esportare tecnologia! E così, nella fabbrica di quest’altro bel posto ai confini del nulla ci trovo una produzione che da tempo mi chiedevo dove mai potesse essere stata fatta e chi la facesse. Qui si realizzano gli abiti di Marina Rinaldi ( gruppo Max Mara), per la precisione le taglie comode, dove far cucire un vestito costa 7 euro. Ma neanche le taglie comode sfuggono al sacrosanto principio degli stilisti: costi bassissimi e stangata al cliente.

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Ansa Macchine da cucireA sinistra operaie del Bangladesh in condizioni precarie. A destra quelle cinesi
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Ansa La lunga filieraIl sistema moda termina nei negozi, boutique e centri commercial­i dove i clienti si affidano alle marche
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Ansa Addette alla sartoria Da destra a sinistra: sarte specializz­ate alle macchine da cucire e una sarta d’haute couture
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