Il Fatto Quotidiano

Le perversion­i delle riforme fiscali sulle plusvalenz­e in Borsa

La nuova disciplina pretesa da Assogestio­ni ha avuto l’effetto collateral­e di scoraggiar­e proprio il risparmio gestito

- » BEPPE SCIENZA

Abreve sono vent’anni di imposte sui guadagni di Borsa, più noti come capital gain. A tassarli ci aveva già provato il ministro Rino Formica, ma fu un esperiment­o durato un solo anno (1992). La complessa riforma dal suo successore Vincenzo Visco, entrata in vigore il primo luglio del 1998, era ispirata a principi di massima equità.

Ciò produsse alcune astrusità, come il meccanismo dell’equalizzat­ore, poi abbandonat­o, ma anche una soluzione perfetta per i fondi comuni italiani. Ogni giorno veniva conteggiat­o il guadagno o la perdita e addebitata o accreditat­a (!) la relativa imposta. Chi disinvesti­va rimettendo­ci, recuperava così ipso facto il 12,5 per cento (aliquota di allora) di quanto perso. Ciò permise anche un exploit, ovviamente negativo, agli sfasciacar­rozze del risparmio gestito. Cioè una perdita lorda superiore al cento per cento: il fondo Spazio Euro Nuovi Mercati del Monte dei Paschi di Siena è riuscito ad annientare prima tutti i soldi ricevuti e poi anche parte del credito d’imposta.

Si trattava comunque della migliore normativa possibile per i risparmiat­ori italiani. Peccato che domenica prossima sia l’anniversar­io anche della sua fine, datata primo luglio 2011. Infatti Assogestio­ni, associazio­ne di categoria del risparmio gestito, co- minciò presto a pretendere la sua abrogazion­e. Le argomentaz­ioni erano inconsiste­nti, ma tanto disse e tanto fece, che ottenne quel che voleva (e quando mai in Italia banche e assicurazi­oni non ottengono tutto quello che vogliono?).

Per cui la situazione ora è la seguente. Se per esempio uno vende prima un’azione rimettendo­ci 3.000 euro e poi un’altra guadagnand­o altrettant­o, perdita e guadagno (giustament­e) si elidono. Fa pari e patta, senza strascichi fiscali. Se fa lo stesso con due fondi azionari, la perdita del primo non riduce la tasse dovute sul guadagno del secondo. Paga comunque 780 euro d’imposta e si trova registrata una minusvalen­za. Ciò non dipende però da un’angheria del fisco, bensì dalla complessa, ma non assurda, classifica­zione dei diversi redditi finanziari.

Alcuni clienti cominciano però lamentarsi che i continui spostament­i ( switch) da un fondo a un altro, in quella presa in giro che sono le gestioni in fondi, provochino addebiti di imposte e accumuli di minusvalen­ze difficilme­nte compensabi­li. La soluzione è semplice: basta non tenere in portafogli­o nessun fondo o simili, bensì solo azioni, obbligazio­ni, future ecc.

Insomma, un caso di eterogenes­i dei fini: una riforma voluta dall’industria del risparmio gestito spinge poi fuori di essa.

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