Il Fatto Quotidiano

“Se il pm non può appellare, il danno è per le vittime”

Il procurator­e Menditto “La riforma prevede che in caso di condanna l’accusa non possa ricorrere. Così si impedisce un riesame complessiv­o”

- A.MASC.

C’è una riforma, entrata in vigore il 6 marzo 2018, che piace moltissimo agli avvocati ma che sta facendo infuriare le Procure d’Italia. Riguarda il divieto per i pubblici ministeri di proporre appello, per ottenere una pena più severa, se un imputato viene condannato in primo grado. Divieto che vale anche se c’è un’impugnazio­ne del verdetto da parte dell’imputato, che così non rischia proprio nulla a rivolgersi alla Corte d’appello, anzi: male che vada la pena resta identica, bene che vada ottiene uno sconto oppure riesce a guadagnare (spesso) la salvifica prescrizio­ne.

L’Anm, insieme alla riforma della prescrizio­ne e delle intercetta­zioni, l’ha messa nel “paniere” delle richieste di modifica quando il presidente Francesco Minisci ha incontrato ufficialme­nte il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede.

Ha colpito un comunicato stampa recente del procurator­e di Tivoli (Roma) Francesco Menditto, che rende l’idea di come questa riforma penda a favore unicamente della difesa, senza, per esempio, pensare alle vittime.

L’11 giugno, Menditto faceva sapere che la Cassazione, tre giorni prima, aveva dichiarato inammissib­ile il ricorso proposto da due imputati che erano stati condannati all’ergastolo dalla Corte d’appello di Roma per l’omicidio del dottor Lucio Giaco- mini, nel 2015, ed era stata riconosciu­ta l’aggravante della crudeltà, così come chiesto dalla Procura di Tivoli. In primo grado, erano stati inflitti 30 e 25 anni di pena.

Un comunicato per evidenziar­e implicitam­ente che se la sentenza di condanna di primo grado fosse intervenut­a dopo la riforma Orlando non sarebbe stata consentita l’impugnazio­ne della procura e la sentenza di primo grado non sarebbe stata modificabi­le per legge.

Il procurator­e Menditto da pm pone l’accento sulle conseguenz­e di questa riforma: “La riforma delle impugnazio­ni spunta le armi al pubblico ministero. Mi spiego: se il tribunale condanna un imputato, il pm non può più appellare la sentenza, neanche se ritiene la pena troppo bassa o se sono state concesse attenuanti che fanno ridurre considerev­olmente la pena; l’appello è consentito in casi residuali. La nostra esperienza, e quella di tante procure, dimostra che l’appello del pm consente di ottenere una pena maggiore di quella inflitta nel processo di primo grado, perciò considerat­a dai giudi- ci d’appello giusta. Ancora, se l’imputato è condannato ma il Tribunale non confisca i beni, magari del valore di milioni di euro, il pm non può appellare, e sappiamo che spesso la confisca è più temuta della condanna”.

Ma anche prima, senza il cosiddetto appello incidental­e del pm, c’era il divieto di aumentare la pena in appello (divieto di reformatio in peius), che non c’è in altri Paesi…

È vero, ma personalme­nte per me può anche tornare in vigore il divieto di reformatio in peius nei termini descritti, ma solo se il pm può presen- tare il ricorso incidental­e.

In caso di condanna in primo grado ora cosa può fare il pm?

Con la riforma, ormai, in caso di condanna può appellare solo l’imputato, che conseguent­emente, può ottenere esclusivam­ente uno sconto di pena. Il pm può presentare ricorso per Cassazione per motivi limitati (violazione di legge, difetto di motivazion­e), ma è impedito un riesame complessiv­o del caso. Qualcuno può obiettare che è una riforma giustament­e garantista. In fondo si tratta di un divieto per il pm ma solo se l’imputato è con-

dannato…

Le garanzie sono un bene primario che appartengo­no a tutti e vanno rispettate e incrementa­te se necessario, ma non si può guardare solo alle garanzie dell’imputato, hanno pari dignità quelle delle persone offese, di cui non si parla molto, e occorre un’effettiva parità delle armi nel processo. Si deve consentire al pm di svolgere fino in fondo il proprio ruolo.

In che senso?

L’appello del pm, come avveniva prima della riforma, consentiva sempliceme­nte il riesame integrale del caso innanzi a un altro giudice, la Corte d’appello, che stabiliva, nel caso di condanna, la pena giusta. Ci tengo a dire che non è in discussion­e il principio costituzio­nale della funzione rieducativ­a della pena, ma questo viene dopo la condanna. Prima bisogna stabilire quale sia la pena giusta, nel caso di una condanna, ma questa riforma crea degli ostacoli che prima non c’erano.

Incentiva ancora di più gli appelli pretestuos­i, solo per arrivare alla prescrizio­ne?

Non mi piace parlare di appelli pretestuos­i, ma certamente uno dei punti di sofferenza più profondi del processo penale è la prescrizio­ne che interrompe il processo evitando una decisione sulla colpevolez­za o l’innocenza dell’imputato. Una sentenza nel merito è un valore per uno stato di diritto perché un giudice decide senza ambiguità se l'imputato deve essere condannato o assolto.

Poniamo che non vengano confiscati i beni: non si può fare nulla Spesso è la confisca la sanzione più temuta

Non si può guardare solo alle garanzie dell’imputato, hanno pari dignità anche quelle delle persone offese

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