“FLESSIBILITÀ” CONTRO IL “REGIME”
A Roma la sinistra-sinistra riflette sui giallo-verdi. Ma la risposta non si trova
Il fascismo eterno e quindi irreversibile. Sostiene con vigore marxista il costituzionalista Mario Dogliani: “È come nel 1912 quando Giolitti ricompattò un Paese frantumato attorno alla guerra colonialista in Libia”. Ieri Tripoli oggi Bruxelles. Non solo: “Nel 1922, Einaudi, Croce e Salvatorelli erano tutti favorevoli all’avvento del fascismo”. Ieri Mussolini, oggi Salvini nuovo duce.
Poi però la spietata analisi di Dogliani - rinforzata da una veemente critica alla prosa dannunziana del povero Manifesto , il quotidiano - viene interrotta da un grottesco duetto con un altro relatore intervenuto e seduto in platea, Giuseppe De Marzo di Libera. Dogliani: “Tu hai usato un voi universale che non mi piace, io non mi riconosco nella sinistra di governo degli ultimi vent’anni”. De Marzo: “Vieni a spiegarlo con me nelle periferie, vieni a dire ai poveri che ci sono differenze tra Bertinotti e Renzi”. E così via per almeno tre minuti. In realtà, Dogliani e De Marzo hanno entrambi ragione. Il primo perché fa parte della sinistra del Brancaccio che poi si è dispersa tra Liberi e Uguali e Potere al popolo. Il secondo per altre ragioni oggettive: tra il tavolo della presidenza e le prime file ci sono pezzi della classe dirigente che ha fatto morire la sinistra: Vincenzo Vita, Cesare Salvi, finanche il bertinottiano Alfonso Gianni.
Roma pomeriggio, vicino al Senato. La saletta della fondazione Lelio Basso (socialista, non comunista) è angusta. Manca l’aria condizionata e ci sono problemi con i microfoni. Il dibattito, anzi il seminario convocato con urgenza nella caluta africana della Capitale non ammette rinvii: “Il governo gialloverde è un incubo o un regime?”. L’invito promette la partecipazione di Cuperlo, Fratoianni e Anna Falcone, ma i tre non si vedono. In compenso c’è Arturo Scotto di LeU. Il quale Scotto vuole sì adeguarsi al clima partigiano e semiclandestino della riunione, “opposizione chiara e netta” al nuovo regime, ma al tempo stesso insinua il veleno della flessibilità per “allargare le contraddizioni della maggioranza”. Ma allora è una maggioranza o un regime? In ogni caso l’opposizione flessibile è d’uopo con tutto quello che ri- guarda il M5S, a partire dal decreto dignità.
Sia chiaro, in nessun intervento emerge che il 45 per cento dell’elettorato grillino viene dall’area un tempo comunista. La sinistra minoritaria, diventata ultraminoritaria alle Politiche del 4 marzo, preferisce attorcigliarsi sui soliti tic antichi e parlarsi addosso. Per ore. Nella saletta ci sono trenta persone e sono quasi tutti relatori, nonostante l’apertura al pubblico del seminario. In ordine sparso: Aldo Tortorella, Massimo Villone, Felice Besostri, Walter Tocci, Maurizio Acerbo.
Ovviamente il che fare leniniano deve poggiare le radici in una solida teoria e così la densa introduzione è di Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto. Ferrajoli parte benissimo, puntellando accademicamente la crisi del principio di uguaglianza in Italia e in Europa (la criminale omissione di soccorso dei migranti sull’Aquarius), ma poi si arena sul movimento operaio e la coscienza di classe, come se bastassero a spiegare i milioni di voti (ceto medio, non solo proletari) persi dalla sinistra in questi due decenni.
Che fare, quindi? Opposizione in piazza; fronte unitario ma non repubblicano alla Calenda; opposizione dura ma anche flessibile? Insomma, proposte stantie o senza sbocco, visto l’esito elettorale dei raduni del Brancaccio.
Tra soggettività alternative, agire politico e lotta di classe, l’unico concreto con le idee chiare è Massimo Torelli da Firenze: “Oggi c’è una passione per l’odio. I compagni nelle Case del popolo dicono che i ‘negri’devono andare via”. Alle 19 e 30, il cronista si arrende dopo 150 minuti di dibattito e va via. Le conclusioni di Tortorella sono pervenute a notte fonda, probabilmente.