Il Fatto Quotidiano

MAFIA E PRESCRIZIO­NE OLTRE LA PROPAGANDA

- » ANTONIO ESPOSITO

Il neo ministro di Giustizia Alfonso Bonafede ha preannunci­ato che la sua priorità è la lotta alla mafia (e alla corruzione); poi, qualche giorno dopo, ha dichiarato che “la riforma della prescrizio­ne è una priorità”. Quanto alla prima delle “priorità”, ben pochi sono i poteri in merito assegnati al Guardasigi­lli rispetto a quelli che competono al ministro degli Interni che, però, ha tra le sue priorità quella di convincere i cittadini – in una permanente campagna elettorale imperniata sullo slogan “Prima gli italiani” – che la loro sicurezza è posta in pericolo più dagli immigrati che non dalla (italiana) criminalit­à organizzat­a che ha occupato, oramai, quasi l’intero territorio italiano.

REGIONI COME LA SICILIA, la Puglia, la Calabria, la Campania sono state, e sono tuttora, “devastate” dalle organizzaz­ioni criminali e, cioè, “mafia”, “sacra corona unita”, “’ndrangheta” e “camorra” che, da anni, hanno sistematic­amente assoggetta­to le popolazion­i a estorsioni, intimidazi­oni, violenza, omicidi nel contesto anche del traffico di droga (apportatri­ce di morte). In particolar­e la “’ndrangheta” si è estesa in tutta Italia occupando l’intero territorio lombardo e infiltrand­osi pericolosa­mente nel basso Lazio, in Emilia, nel Veneto e in Piemonte. Quanto alla “camo rra”, essa, attraverso decine di “clan” criminali, ha occupato, capillarme­nte, i territori della provincia di Napoli e Caserta, inquinando anche gravemente la politica.

Qui la situazione è aggravata dalla micro-criminalit­à che, attraverso “clan” di giovanissi­mi, tiene giornalmen­te la città di Napoli sotto scacco, con scippi, rapine e furti. Ora, se questo fenomeno criminale si è esteso, è evidente che nessun governo, a partire dal Dopoguerra, ha mai fatto seriamente la guerra al crimine organizzat­o e vi è stata, anzi, spesso connivenza e collusione tra politici, anche di alto livello governativ­o, e i sodalizi criminali. E, allora, un “cambiament­o epocale” evocato dal “premier” Conte, deve necessaria­mente passare per due strade: la prima è una più incisiva azione repressiva con l’in- vio e la permanenza (non di breve durata, ma per anni) di un massiccio numero di appartenen­ti alle forze dell’ordine e di militari in quelle zone ad altissima densità criminale (si pensi alle province di Reggio Calabria, Napoli, Caserta, al Lametino) per “riconquist­are” il territorio oggi occupato dalla criminalit­à e per presidiare aziende e imprese i cui titolari sono sottoposti a sistematic­he estorsioni o, in caso di rifiuto, a gravi rappresagl­ie, anche a rischio della vita. La presenza di tali forze dà tranquilli­tà e sicurezza ai cittadini e infonde fiducia verso le istituzion­i negli imprendito­ri motivandol­i – sentendosi protetti – alla denuncia e alla collaboraz­ione con le forze dell’ordine e con i magistrati. La loro presenza costante determina una diminuzion­e, addirittur­a del 50%, dei reati sicché essa, rendendo difficolto­se operazioni di traffico di droga e l’imposizion­e del “pizzo”, fa venir meno il flusso di denaro che alimenta la vita dei sodalizi mafiosi.

La seconda strada è quella che, contestual­mente, bisogna, una volta per tutte, affrontare con determinaz­ione, anche sotto il profilo sociale, culturale ed economico e in sinergia con le regioni e gli enti locali, la “questione meridional­e” ove si radica la cultura del favoriti- smo e del clientelis­mo ove, in definitiva, il fenomeno mafioso si intreccia con la corruzione. Bisogna, in altri termini, liberare le nuove generazion­i dal ricatto del bisogno nelle vaste zone ove la dispersion­e scolastica è record a livello nazionale, ove i giovani vivono la strada e qui entrano in contatto con realtà criminali di ogni genere e ove le organizzaz­ioni tramandano l’arte del crimine di padre in figlio.

PER QUANTOrigu­arda la prescrizio­ne, sembrava che, durante la campagna elettorale del M5S, fosse prevalsa l’intenzione di non farla più decorrere dalla richiesta di rinvio a giudizio. Oggi, il ministro annuncia “stop alla prescrizio­ne dopo la sentenza di I grado”. Si tratta di una errata iniziativa per due ordini di motivi: il primo è che, come dimostra l’esperienza, la lungaggine (oltre che delle indagini preliminar­i) del dibattimen­to, che dura mediamente 3-4 anni e oltre per i procedimen­ti più complessi, ha portato all’estinzione di migliaia di processi anche di grande rilevanza. Il secondo è che la prescrizio­ne costituisc­e una ipotesi di rinunzia dello Stato alla pretesa punitiva che attiene all’esercizio d el l ’azione penale. Pertanto, è nel momento in cui il titolare dell’azione penale e, cioè, il pm si rivolge al giudice per ottenere una decisione sulla realizzabi­lità della pretesa punitiva dello Stato in ordine a un fatto-reato, che la prescrizio­ne non ha più ragione di essere ed è privo di significat­o giuridico collegare tale evenienza alla sentenza di I grado.

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