“Sono precipitato, ma sono vivo”. Si scava ancora tra le macerie
La pioggia, un lampo accecante e poi il gigantesco pilone collassa. 26 le vittime accertate, tra cui un bambino
“Il vuoto mi ha inghiottito. Stavo guidando e al l’improvviso ho sentito l’auto diventare leggera, ho visto la strada precipitare e io le sono andato dietro. Nel vuoto. Per decine di metri. Tutti gli air bag si sono aperti, ho sentito un botto pazzesco e mi sono ritrovato lì, incastrato nell’arcata del ponte”. Davide Cappello, 33 anni, vigile del fuoco con un passato da calciatore, indica la sua Volkswagen Tiguan nuova di zecca miracolosamente appesa nel nulla. “Potevo essere morto”, continua a ripetere indicando la montagna di macerie alta venti metri. E trema, è stravolto da un tremito incontrollabile. Il freddo, la pioggia, certo, ma non bastano le coperte di plastica luccicante che gli infermieri gli mettono per togliergli quel gelo che ha addosso. È la morte che Davide si sente dentro. Lui che è uno dei pochissimi automobilisti caduti dal ponte e sopravvissuti. Bastava un metro di più e non ce l’avrebbe fatta. Sono le 11,50 di ieri mattina. Giorno di esodo, centinaia di auto sul Ponte Morandi che taglia la Valpolcevera, nella periferia a Ponente di Genova. Piove a dirotto. Poi un lampo accecante e il gigantesco pilone di cemento armato si contorce, si piega e collassa.
Almeno 26 persone rimangono sotto le macerie (i corpi sono già stati recuperati), ma il timore è che si arrivi a 35 vittime. Forse più. In quel momento sul ponte passavano, pare, 40 auto e tre mezzi pesanti. Ci vorranno giorni, forse settimane, per essere certi del numero delle vittime. Automobilisti, almeno due dipen- denti dell’Amiu – la società delle nettezza urbana – che si trovavano sotto il ponte. Ma potevano essere molti, molti di più, centinaia le vittime se fosse crollato anche quel brandello rimasto appeso al vuoto. Sopra ai condomini fittissimi vicino a via Fillak.
“Oh mio dio, crolla il ponte!”, urla una donna affacciata proprio a quelle finestre. “Ho sentito un rumore terribile, come il barrito di un mostro giga nt es co ”, racconta Amelia Gessi, 17 anni, che stava andando all’Ikea lì accanto. Poi un silenzio interminabile. E alla fine le sirene, una, dieci, cento. Da tutte le parti. Elicotteri. Gente che corre come impazzita in tutte le direzioni. Genova si ritrova così, come dopo i grandi bombardamenti della Seconda guerra mondiale.
“C’È QUALCUNO, c’è qualcuno?”, urla disperatamente un vigile del fuoco affacciandosi sul buio delle caverne tra le macerie. Silenzio. “Ecco i teli”, accorre un poliziotto portando con sé qualsiasi cosa pur di coprire i corpi, le braccia, le gambe e i volti che sporgono dalle carrozzerie accartocciate. All’interno asciugamani e costumi da bagno. Forse è l’auto della famiglia Robbiano: il piccolo Simone è morto con il papà Roberto. Della madre non si conosce la sorte.
Ora è tutto marcio d’acqua, fulmini che cadono a pochi metri, le divise dei soccorritori zuppe. Ma nessuno ci fa caso adesso. Si corre, si cerca di fare qualcosa, ma è difficile capire cosa, di fronte a un muro di cemento alto decine di metri.
Seduta, accasciata in un angolo, c’è una donna bionda. Non riesce quasi a parlare, appena un sussurro: “Mio figlio lavorava proprio qui, era un impiegato stagionale dell’Amiu, si occupava di rifiuti”. Poi si attacca al telefono, chiama il ragazzo sperando che improvvisamente la sua voce riemerga dal buio. Niente. E c’è Alina, albanese, anche lei appesa al cellulare che suona a vuoto: “Mio figlio è impiegato in una società di trasporti, doveva passare qui proprio a quell’ora. Gli ho parlato pochi minuti prima... non potevo pensare...”, Alina lascia la frase a metà. Poi si avvicina alle macerie e urla: “Marius, Marius”.
Intorno il paesaggio del Ponente cittadino cambiato in pochi secondi, senza più quello che qui veniva chiamato il “Brooklyn di Genova”. Dove c’era una campata di duecento metri adesso c’è il cielo. Lo guardano gli abitanti dalle case, ancora lì, sul terrazzo, nonostante quel troncone di ponte sulle loro teste. “An da te via!”, si sbraccia un poliziotto. Saranno tutti evacuati, centinaia di famiglie, molti anziani. E guarda il ponte, il vuoto che ha lasciato, anche Davide: “Stavo tornando dal lavoro, presto servizio come vigile del fuoco a Savona. Ero lassù”, guarda l’orologio, “a pp en a cinquanta minuti fa. E adesso...”, è cambiata la sua vita. Quei secondi di volo non lo abbandoneranno mai. Difficile dire se sia più forte il sollievo per essere sopravvissuto o il terrore di aver sfiorato la morte: “Accompagnatelo via”, urla un milite della Croce Rossa. Che almeno non senta le voci dei soccorritori, le preghiere dei parenti. I lamenti che, sarà soltanto suggestione, sembrano arrivare da sotto le macerie. Poi più nulla. Corrono tutti verso gli ospedali di Genova dove i corridoi esplodono. “Nelle camere mortuarie non c’è più posto”, sibila un vigile alla radio. Genova è tutta qui: i ragazzi, come Luca Panetta, che appena sentito il botto sono corsi per aiutare. E non hanno voglia di parlare, di fare gli eroi, mostrano soltanto un taglio sul braccio. I curiosi, certo, ci sono anche loro, che arrivano per scattare una foto. E c’è perfino chi, a pochi metri dal disastro, cammina con un carrello per comprare i mobili all’Ikea.
DAVIDE CAPELLO, VIGILE DEL FUOCO
Ho sentito l’auto diventare leggera, ho visto la strada scoparire, ho sentito un botto pazzesco e mi sono ritrovato incastrato nell’arcata
LA MADRE DI UN DISPERSO
Mio figlio lavorava proprio qui, era un impiegato stagionale dell’Amiu, si occupava di rifiuti, non risponde al telefono, non risponde