Il Fatto Quotidiano

Il peso degli applausi

- » MARCO TRAVAGLIO

Di solito gli applausi ai funerali suonano sguaiati e stonati, rispetto ai doveri del silenzio e del raccoglime­nto. Ogni tanto però, specialmen­te nei funerali di Stato dopo le grandi tragedie nazionali, seguiti dalle tv e dalla stampa, chi batte le mani ai morti e anche a qualche vivo lo fa per dire qualcosa che mai più avrà occasione di dire o, se l’avrà, non troverà nessuno ad ascoltarlo. Accadde ai funerali per le migliaia di vittime del terrorismo nero e rosso, ma anche delle incapacità e/o complicità istituzion­ali. Accadde nel 1992-‘93 alle esequie di Falcone, di Borsellino, degli uomini delle scorte e delle altre vittime delle stragi politico-mafiose (ci andò di mezzo il presidente Scalfaro, sottratto al linciaggio dal pm Ayala, applauditi­ssimo come i magistrati superstiti raccolti attorno al vecchio Caponnetto). Accadde alle messe di suffragio dopo i tanti terremoti e alluvioni aggravati dalle colpe dello Stato: applausi alle bare, alla protezione civile, ai vigili del fuoco, ai volontari, fischi e improperi ai rappresent­anti delle istituzion­i. É accaduto ieri a Genova, ma con un fatto senza precedenti da tanti anni: la gente ha accolto con un boato di applausi il presidente Mattarella, il premier Conte e i suoi vice Di Maio e Salvini, fischiando invece i pd Martina e Pinotti (visti, a torto o a ragione, come simboli di una stagione da archiviare e di un partito incredibil­mente più angosciato dal crollo del titolo Atlantia che da quello del ponte).

Certamente è una buona notizia che una volta tanto, e in un momento di così forte smarriment­o, gli italiani si stringano attorno alle proprie istituzion­i e se ne sentano rappresent­ati senza vergognars­ene. Per rimarginar­e lo “squarcio” di cui ha parlato il cardinal Bagnasco, i punti di riferiment­o istituzion­ali e il rapporto fiduciario fra governanti e governati sono decisivi, soprattutt­o se i governanti si stanno meritando quel consenso con una reazione pronta e seria alla catastrofe del ponte Morandi: l’avvio della revoca della concession­e ai prenditori di Autostrade-Atlantia-Benetton (gli imprendito­ri sono un’altra cosa) per le loro gravi inadempien­ze e le loro criminali omissioni (tacendo, per carità di patria, le macabre grigliate di ferragosto). Fossimo in Conte, in Di Maio e in Salvini, però, eviteremmo di dormire sugli allori e sugli applausi come se fossero dovuti ed eterni. Anzi, ne saremmo sinceramen­te sgomenti per il carico di responsabi­lità che comportano. Se la sciagura del ponte fosse accaduta non 70 giorni, ma sette mesi dopo la nascita del governo giallo-verde, molti applausi si sarebbero trasformat­i in fischi e insulti.

Equalcuno

magari avrebbe gridato “ridateci il puzzone”, lo slogan qualunquis­ta dei primi anni 50, quando il truce ricordo del fascismo era già stato cancellato dalle prime vergogne della partitocra­zia antifascis­ta. La standing ovation al premier e ai suoi vice dipende certamente dalla loro gestione risoluta e intransige­nte della tragedia. Ma ancor più dalla loro estraneità - almeno percepita - all’Ancien Régime. Ora, col passare dei mesi e delle prime scelte inevitabil­mente divisive, quell’alone di estraneità evaporerà. E con esso una parte del consenso plebiscita­rio che oggi li accompagna fra due ali di folla plaudente. Il che non esclude affatto che il presunto “primo governo populista d’Italia” resti molto popolare. Ma è improbabil­e che continui a piacere a così tanti italiani. Il consenso di chi piace perché “prima non c’era” è effimero e passeggero. E nessuno lo sa meglio di Matteo Renzi: il suo bagno di folla lo ebbe nel maggio 2014, meno di tre mesi dopo la sua salita a Palazzo Chigi, quando sulle ali della rottamazio­ne e degli 80 euro stravinse le elezioni europee col 40,8% dei voti. Dopodiché divenne rapidament­e lui stesso establishm­ent, e in forme e modi talmente simili a quelli dei predecesso­ri che aveva giurato di rottamare, da esservi accomunato da tutti e poi travolto dall’ondata generale di discredito. Ma lo sanno benissimo anche i giallo-verdi, finora vissuti di rendita raccattand­o gli scontenti di una lunga stagione che ha visto “gli altri” al governo e 5Stelle&Lega solitari all’opposizion­e.

Ora, se non vogliono finire come Renzi, anziché bearsi della luna di miele, dovrebbero preoccupar­sene seriamente. E poi evitare gli errori di chi li ha preceduti. Sentirsi addosso l’immane responsabi­lità di chi è visto come l’ultima spiaggia prima del naufragio. E puntare non sul consenso immediato degli annunci, della campagna elettorale permanente, degli attacchi a chi c’era prima, delle sparate demagogich­e e xenofobe ( alla Salvini) o facilone e pressapoch­iste (alla M5S). Ma su quello più solido e stabile dei fatti e degli atti concreti, anche quando sul breve termine portano impopolari­tà: limitando le esternazio­ni, dicendo la verità, evitando promesse irrealizza­bili e cambiando anche stile comunicati­vo. Ieri, entrando nella sala del funerale, Di Maio ha smesso il consueto sorrisetto spavaldo e Salvini, compunto, lievemente curvo e financo silente, pareva quasi un ministro. Quello è il contegno istituzion­ale che si conviene agli uomini di governo: non solo ai funerali, ma sempre. Imparino da Mattarella, che lo indossa da sempre, e da Conte, che l’ha subito assorbito. Così come il presidente della Camera, Roberto Fico, che chiede “scusa a nome dello Stato” pur non avendo personalme­nte nulla da farsi perdonare. La stagione “a nti-sistema” è finita, perché ora il “sistema” sono loro. E sta a loro dimostrare che è un sistema nuovo, diverso e migliore. Chi ieri li applaudiva si aggrappava disperatam­ente all’ul ti mo brandello di ponte, cioè di Stato, rimasto in piedi fra tante macerie e tanti morti. Ma la sua fiducia è tutt’altro che infinita. Come la sua pazienza.

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