Il giornalismo del dolore non basta più
Per qualche giorno è sembrato possibile raccontare la tragedia di Genova nello stesso modo in cui sono stati raccontati i terremoti e le alluvioni: stesse macerie, stessi riti, stessi toni. Una narrazione addolorata, spesso retorica, raramente misurata. Ma questa volta la natura non c’entra. Questa volta, sono le mancanze dell’uomo sotto accusa. Ed è qui - attorno alla più impronunciabile tra le parole, responsabilità - che è esploso il cortocircuito tra il giornalismo del dolore (una riga, una lacrima) e il sentimento di rabbia dei cittadini e delle famiglie colpite dal lutto. Per tre giorni è stato impossibile rintracciare nelle cronache il nome dei fratelli Benetton, azionisti di maggioranza di Atlantia (Autostrade). Fino a ieri, quando abbiamo appreso dal Corriere che sono tutti sotto choc (ma no?), e che a causa del proverbiale riserbo nessuno ha parlato: “A Treviso si dispone per tutto ciò che è possibile fare”. La Verità in edicola lo stesso giorno, informava del party di Ferragosto che come tutti gli anni si è svolto nella villa cortinese degli industriali. E’ populista osservare che la tragedia avvenuta il 14 agosto non è stata sufficiente a rinviare i festeggiamenti?
Il premier Conte (senza tentennare, da subito) ha annunciato di voler provare a revocare la concessione: fiumi di inchiostro sono stati spesi blaterando sulla supposta violazione dello stato di diritto perché “bisogna aspettare gli esiti dell’inchiesta della magistratura”. E’sembrato, a leggere certe stravaganti interpretazioni del contratto di concessione (in parte secretato) tra Stato e Autostrade, che i Benetton al fine saranno risarciti per il danno del crollo del ponte. Nella confusione dei piani, la malafede è evidente: l’azione penale accerta se un fatto è accaduto e se costituisce reato o meno. Quel che intende fare il governo, nel pieno esercizio della propria potestà decisionale, è recedere da un contratto perché reputa la controparte inadempiente (il crollo di un ponte con 43 morti è ritenuto un motivo sufficiente).
SI È PERFINO ARRIVATI a stigmatizzare la scelta di venti famiglie che hanno rifiutato il funerale di Stato: “Una distanza dalle istituzioni che può trasformarsi in una deriva pericolosa” (il tg di La7). Mai quanto, evidentemente, deve essere stato pericoloso attraversare il ponte Morandi. Il no alle esequie pubbliche - abbiamo invece letto su Repubblica - è stata una decisione probabilmente presa in polemica con questo governo a cui non si possono imputare le scelte pregresse, ma di aver trasformato la tragedia “in un’occasione di propaganda” sì. Poi - a dispetto di difese d’ufficio, distinguo e precisazioni - nel padiglione gremito a dismisura per i funerali succede che il Presidente della Repubblica viene applaudito insieme al nuovo governo. E che a essere fischiati siano gli esponenti del vecchio potere che ha reso possibili le privatizzazioni e una gestione fuori controllo delle autostrade. Quelli che mentre si contavano i morti si sono occupati delle oscillazioni in Borsa del titolo del concessionario, invocando l’unità nazionale; quelli che, come il segretario del Pd, si sono preoccupati “della guerra a suon di carte bollate”. La rabbia non può essere ridotta a populismo, a sete di vendetta o giustizialismo. Siamo molto al di là della rottura della connessione sentimentale con il paese (oppure l’aggettivo sentimentale è stato confuso con qualche, melenso, sinonimo). Quel che è accaduto a Genova è troppo, non si poteva in alcun modo ricondurlo alla fatalità, a un destino implacabile: è incredibile che il sistema dell’informazione non lo abbia compreso, per cecità, convenienza, posizione politica. O, peggio, per il riflesso pavloviano di non disturbare i potenti.