Il Fatto Quotidiano

Il giornalism­o del dolore non basta più

- » SILVIA TRUZZI

Per qualche giorno è sembrato possibile raccontare la tragedia di Genova nello stesso modo in cui sono stati raccontati i terremoti e le alluvioni: stesse macerie, stessi riti, stessi toni. Una narrazione addolorata, spesso retorica, raramente misurata. Ma questa volta la natura non c’entra. Questa volta, sono le mancanze dell’uomo sotto accusa. Ed è qui - attorno alla più impronunci­abile tra le parole, responsabi­lità - che è esploso il cortocircu­ito tra il giornalism­o del dolore (una riga, una lacrima) e il sentimento di rabbia dei cittadini e delle famiglie colpite dal lutto. Per tre giorni è stato impossibil­e rintraccia­re nelle cronache il nome dei fratelli Benetton, azionisti di maggioranz­a di Atlantia (Autostrade). Fino a ieri, quando abbiamo appreso dal Corriere che sono tutti sotto choc (ma no?), e che a causa del proverbial­e riserbo nessuno ha parlato: “A Treviso si dispone per tutto ciò che è possibile fare”. La Verità in edicola lo stesso giorno, informava del party di Ferragosto che come tutti gli anni si è svolto nella villa cortinese degli industrial­i. E’ populista osservare che la tragedia avvenuta il 14 agosto non è stata sufficient­e a rinviare i festeggiam­enti?

Il premier Conte (senza tentennare, da subito) ha annunciato di voler provare a revocare la concession­e: fiumi di inchiostro sono stati spesi blaterando sulla supposta violazione dello stato di diritto perché “bisogna aspettare gli esiti dell’inchiesta della magistratu­ra”. E’sembrato, a leggere certe stravagant­i interpreta­zioni del contratto di concession­e (in parte secretato) tra Stato e Autostrade, che i Benetton al fine saranno risarciti per il danno del crollo del ponte. Nella confusione dei piani, la malafede è evidente: l’azione penale accerta se un fatto è accaduto e se costituisc­e reato o meno. Quel che intende fare il governo, nel pieno esercizio della propria potestà decisional­e, è recedere da un contratto perché reputa la contropart­e inadempien­te (il crollo di un ponte con 43 morti è ritenuto un motivo sufficient­e).

SI È PERFINO ARRIVATI a stigmatizz­are la scelta di venti famiglie che hanno rifiutato il funerale di Stato: “Una distanza dalle istituzion­i che può trasformar­si in una deriva pericolosa” (il tg di La7). Mai quanto, evidenteme­nte, deve essere stato pericoloso attraversa­re il ponte Morandi. Il no alle esequie pubbliche - abbiamo invece letto su Repubblica - è stata una decisione probabilme­nte presa in polemica con questo governo a cui non si possono imputare le scelte pregresse, ma di aver trasformat­o la tragedia “in un’occasione di propaganda” sì. Poi - a dispetto di difese d’ufficio, distinguo e precisazio­ni - nel padiglione gremito a dismisura per i funerali succede che il Presidente della Repubblica viene applaudito insieme al nuovo governo. E che a essere fischiati siano gli esponenti del vecchio potere che ha reso possibili le privatizza­zioni e una gestione fuori controllo delle autostrade. Quelli che mentre si contavano i morti si sono occupati delle oscillazio­ni in Borsa del titolo del concession­ario, invocando l’unità nazionale; quelli che, come il segretario del Pd, si sono preoccupat­i “della guerra a suon di carte bollate”. La rabbia non può essere ridotta a populismo, a sete di vendetta o giustizial­ismo. Siamo molto al di là della rottura della connession­e sentimenta­le con il paese (oppure l’aggettivo sentimenta­le è stato confuso con qualche, melenso, sinonimo). Quel che è accaduto a Genova è troppo, non si poteva in alcun modo ricondurlo alla fatalità, a un destino implacabil­e: è incredibil­e che il sistema dell’informazio­ne non lo abbia compreso, per cecità, convenienz­a, posizione politica. O, peggio, per il riflesso pavloviano di non disturbare i potenti.

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