Il Fatto Quotidiano

La Santa Inserzione

- » MARCO TRAVAGLIO

Nel 2010 l’Enel comprò alcune pagine del Fatto, come pure degli altri giornali, per promuovere la quotazione di Green Power. Noi illustramm­o i possibili rischi di quel prodotto finanziari­o. L’articolo non piacque all’addetto stampa di Enel, che inviò al nostro concession­ario di pubblicità una spudorata mail annunciand­o la fine delle inserzioni sul nostro giornale. Evidenteme­nte gli altri l’avevano abituato a vendere a Enel, in cambio di qualche pagina di pubblicità, anche tutte le altre: quelle teoricamen­te riservate all’informazio­ne. Noi non siamo usi a questi andazzi: infatti prendemmo l’sms e lo sbattemmo in prima pagina. Perché tutti sapessero con chi avevano a che fare. Quel gran genio lasciò poi l’Enel per approdare alle Autostrade dei Benetton. Dove continuò a foraggiare i giornali in cambio di soffietti e silenzi, addirittur­a a sponsorizz­are la festa di Repubblica e iniziative di altre grandi testate, che infatti dopo il crollo del Ponte Morandi impiegaron­o parecchi giorni prima di nominare, obtor

to collo, i Benetton. La stessa cosa ci riaccadde nel 2017 con un’altra partecipat­a di Stato, l’Eni, che cancellò da un giorno all’altro 20 mila euro di pubblicità al Fatto subito dopo i nostri articoli sull’inchiesta che la vedeva coinvolta per corruzione internazio­nale in Nigeria.

Queste esperienze hanno confermato in noi le poche certezze che abbiamo sempre avuto sull’informazio­ne all’italiana: la stessa che ci aveva indotti a mettere a repentagli­o le nostre carriere e i nostri portafogli per fondare un giornale tutto nostro e senza un euro di denaro pubblico, cioè libero. 1) Le sei reti tv più diffuse, con relativi tg, sono tutte in mano ai partiti: le tre della Rai al Pd di Renzi, le tre di Mediaset a B. 2) I quotidiani – salvo un paio, tra cui il nostro – sono in mano a gruppi imprendito­riali che si occupano marginalme­nte di editoria e principalm­ente di tutt’altro (finanza, banche, assicurazi­oni, costruzion­i, automobili, cliniche, appalti pubblici, politica), in pieno conflitto d’interessi, anche per i rispettivi agganci con i partiti di riferiment­o.

3) Il mercato pubblicita­rio è tutt’altro che libero, perché non obbedisce alla regola aurea della diffusione, ma a quella delle marchette: Mediaset ha il 55-60% di spot contro uno share medio del 30- 35%; quanto ai giornali e ai siti, gl’inserzioni­sti (anche partecipat­e o concession­arie di Stato) premiano non le testate più lette, ma le meno critiche con loro e con i governi retrostant­i. Negli ultimi 10 anni, secondo il Politecnic­o di Milano, la quota dei giornali nel mercato pubblicita­rio sui media è passata dal 31 al 13% e quella del web dal 10 al 34.

Egli investimen­ti complessiv­i sono scesi da 9,2 a 7,9 miliardi. La gran parte dei giornali campa per metà di vendite e per metà di inserzioni. Ma non il Fattodi carta, che vive per oltre il 95% dei soldi dei lettori, non delle aziende. 4) A dopare vieppiù il mercato ci sono i finanziame­nti statali alla stampa, prima più estesi e generalizz­ati, ora più mirati ma pur sempre scandalosi.

Sui punti 1 e 2, attendiamo con ansia che il governo rispetti il contratto e vari una legge contro i conflitti d’interessi e una che liberi la Rai dal controllo governativ­o- parlamenta­re. Sul punto 4, confidiamo che il sottosegre­tario Crimi dia seguito alla promessa di azzerare i fondi pubblici ai giornali che ancora li incassano. Sul punto 3, il recente annuncio del ministro Di Maio sui limiti alla pubblicità delle società partecipat­e dallo Stato (Eni, Enel, Leonardo, Poste, Rai) è il minimo sindacale: i criteri di destinazio­ne dei budget pubblicita­ri devono essere trasparent­i e uguali per tutti, altrimenti si entra nella corruzione e negli scambi di favori. Di Maio sbaglia a sostituirs­i al ministro dell’Economia e a limitare l’annuncio alla carta stampata: il grosso degli investimen­ti promoziona­li va alle tv e al web (la sede più adatta per la pubblicità di prodotto – sconti, nuove tariffe, nuovi servizi – perché il potenziale cliente può passare dall’inserzione all’acquisto con un clic; sui giornali è rimasta la pubblicità “istituzion­ale”, che presenta il nuovo logo, ricorda l’esistenza di una certa azienda o presenta nuovi testimonia­l).

Se poi un’azienda è monopolist­a, come gli acquedotti municipali o le Autostrade, non c’è motivo di concorrenz­a che giustifich­i i suoi spot, inserzioni e sponsorizz­azioni di qua o di là (se non quello inconfessa­bile di comprarsi la buona stampa coi soldi dei cittadini); se invece ha concorrent­i privati e deve comunicare un nuovo servizio, è tenuta a farlo nella massima imparziali­tà per non turbare vieppiù il mercato editoriale. L’ha spiegato Gad Lerner, ex firma di Repubblica, al Fatto dopo la tragedia di Genova: “L’eccesso di zelo con cui si è protetta la famiglia Benetton – e cito anche lo spirito acritico con cui era stata valutata l’esperienza di Sergio Marchionne – ha confermato un riflesso automatico dei media a difesa dei grandi imprendito­ri, che poi spesso sono stati (o sono) nei gruppi editoriali”. E l’ha ribadito a La Verità: “I grandi giornali si sono dimostrati reticenti perché, in tempi di penuria di pubblicità, son ostati condiziona­ti dagl’ investimen­ti degli azionisti di Autostrade ... Altra prova che, per molti anni, diretto riditestat­e e protagonis­ti dell’informazio­ne son ostati confidenti di grandi capitalist­i e allo stesso tempo consiglier­i dei dirigenti della sinistra”.

Perciò leggiamo con grande sorpresa l’editoriale di Ezio Mauro su Repubblica, che accusa Di Maio di voler sottomette­re la stampa più sottomessa d’Europa con “l’ordine alle partecipat­e dello Stato di non fare più pubblicità sui giornali”, con una “ritorsione per quelle poche fonti di informazio­ne che le forze di governo non controllan­o direttamen­te o indirettam­ente”, dopo che “la Rai si è allineata”, anzi è stata “addomestic­ata” e “gli imprendito­ri comprati con un se- mi-condono” (vuoi mettere invece Renzi che anticipava a De Benedetti il decreto Banche popolari, facendogli guadagnare 600 mila euro in Borsa senza muovere un dito).

Anzitutto siamo curiosi di sapere quali media “controllan­o direttamen­te o indirettam­ente” i giallo-verdi, visto che hanno contro il 95% della stampa e non posseggono neppure l’1% di un giornale o di una tv (a parte il Blog delle Stelle e la Prova del cuoco); che gli attuali direttori di rete e di tg della Rai li ha nominati Renzi e quelli di Mediaset li ha scelti B.; che del “semi-condono” non c’è traccia normativa; e che gli imprendito­ri sono talmente comprati che minacciano di scendere in piazza contro il governo, furibondi per il divieto di spot al gioco d’azzardo, il dl Dignità, il Daspo a vita per i condannati, la revisione delle concession­i ad Autostrade &C. e i limiti alle aperture domenicali per la grande distribuzi­one.

Lo stupore aumenta quando Mauro scrive che l’ordine di Di Maio “non cambierà nulla per i giornali”, però ci precipiter­à in un plumbeo “mondo senza giornali, dominato dalle prediche impartite ai seguaci dal pulpito dei social”. Ora, se per i giornali vendere o non vendere pagine alle società pubbliche non cambia nulla, in che senso Di Maio vuole “neutralizz­are i giornali, convinto che tutto si compri e si venda”? Se Repubblica continuerà a tenere le sue feste anche senza la sponsorizz­azione di Autostra- de-Benetton, e anche senza la presenza di Monica Mondardini nel Cda di Atlantia-Benetton e alla vicepresid­enza del gruppo Repubblica- Espresso- Stampa- Secolo XIX, buon per lei. Semmai, a protestare contro Di Maio, dovrebbero essere i manager e i direttori della comunicazi­one delle partecipat­e, allarmati dalla rinuncia forzata a un’importante leva di marketing. Ma Mauro che c’entra? É un giornalist­a, che per vent’anni ha diretto Repubblica, celebre per meritorie battaglie contro i conflitti di interessi (degli altri, tipo B., un po’meno contro quelli di De Benedetti). Anziché sostituirs­i agli uffici marketing, un giornalist­a che teme ritorsioni dal governo dovrebbe chiedere ai lettori di acquistare più spesso il giornale, per trovare nel pubblico – cioè sul libero mercato – le risorse finanziari­e che verrebbero meno. Invece Repubblica, curiosamen­te, tra i lettori e gl’inserzioni­sti di Stato, sembra preferire i secondi.

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