Il Fatto Quotidiano

Un funambolo anti-ovvio

Scomparso a 91 anni

- » PIETRANGEL­O BUTTAFUOCO

La

definizion­e che manca a Guido Ceronetti – così lunare, perfino snodabile – è“guitto”. Fu tutto e non fu niente, per dirla con Mario Giobbe, il traduttore del Cyranodi Edmond Rostand. Fu un funambolo, infatti – in bilico sui suoi stuzzicave­nti, i suoi corsivi – e fu l’inaspettat­o Anacleto disturbant­e. Tale e quale, infatti, con L’Occhio del Barbagiann­i, il suo libro, al barbagiann­i (o è un Gufo?) de La Spada nella Roccia. A volte uguale, col Tragico tascabile, a uno dei tanti schizzi sfuggiti ai taccuini di Federico Fellini.

Avolte uguale, col Tragico tascabile, a uno dei tanti schizzi sfuggiti ai taccuini di Federico Fellini – poliforme, polifonico e plurale – fu, con Insetti senza frontiere, come persona del Dramatis Personae di un Ermanno Cavazzoni o come fantasma di un Eugène Ionesco. Sgamato nell’anagramma “Ugone da Certoit”, scambiato spesso per un cappello o, manco a dirlo, per Geremia, in virtù del suo stesso pseudonimo “Geremia Cassandri”, l’uomo Ceronetti – in carne e ossa, in vestaglia, occhiali e camicie spiegazzat­e – fu sempre se stesso fino a diventare un genere, un modo e un’unica maniera.

Sempre abile a sciorinare le taglienti sentenze della sapienza, al punto di rintuzzare schifato chi prendeva a calci la bara di Erich Priebke ( e sempre a dispetto delle noterelle a margine nei convenevol­i di società; meno che mai quelli della società letteraria) fu solo, e sempre nella lucente solitudine del pezzo raro.

Scrittore, che fu anche poeta – squillante apostrofo, tra le prime firme nell’accigliata verve breznevian­a de La Stampa, il quotidiano della sua Torino – ebbe l’acume del filologo nel virtuosism­o del cesello.

COSÌ NEL RUOLO del biblista (senza tema di sfigurare col cardinal Martini), quindi da traduttore di Catullo – esegeta dell’aura latina in ogni propaggine, perfino la santa messa di San Pio nel rito amato da Cristina Campo – e poi da notista, da editoriali­sta e per svelarsi definitiva­mente attore. E sempre presente a se stesso.

Quattro giorni fa ha avuto impartito il consalamen­tum, l’estrema unzione della tradizione. Ancora prima – guadagnand­o il traguardo del tribolo, issando lo sfibrarsi dei suoi 91 anni su un deambulato­re – ha come spento, una dopo l’altra, le luci della ribalta per ogni urto al cuore, per ciascun focolaio ai bronchi, e ai polmoni, e arrivare smarrito – ma presente a se stesso – al sipario d el l’ischemia. Nel copione chiamato destino. Quello stesso titolo, il destino, cui rivolgeva l’inchino svelando il perché recondito del suo estremo dasein – l’essere lì, a Cetona, nelle colline senesi – senza soldi ma ricco dell’ammirazion­e altrui. E sono sempre a gratis i compliment­i verso gli scavalca montagne cui non manca immaginazi­one e voce (e colore) per fabbricare e animare le marionette nel teatro domestico, come faceva lui offrendo agli amici l’irripetibi­le e già perfetto istante dell’arte.

Attore, appunto. Puparo, a voler precisare, raccontato­re dell’illimitato nel limite circoscrit­to di tinello e cucinino, assistito dalla moglie Erica Tedeschi – il suo Teatro dei Sensibili – fu l’unico a inverarsi nell’epigramma del suo amato Marziale: “I versi sono miei ma se li reciti male, ecco, diventano tuoi!”. E fu tutto suo quel mondo – italianiss­imo e latinissim­o – a sola sua esclu- siva immagine e somiglianz­a. Sua l’invettiva sulle “menzogne nostre, italofone”. È scritto tutto nell’intervista rilasciata a Silvia Truzzi, andate a rileggerve­la nel sito del nostro giornale ed è eco di paroliberi­smi puntuti, taglienti, salvifici contro “bugie povere, senza grandezza, spurghi del pensiero unico che si maschera di anglismi, di sondaggi e di paraocchi economicoi­di”.

Un formidabil­e ritratto – leggetelo! – in un tribolo di messa in scena: “Nessuna verità, neppure un quartino, mai”. Eco di Dostoevski­j, di Florenskij, di Bernardo da Chiaravall­e, tanto è forte il tamburo di Dio in quel petto fatto di frale cartamusic­a.

Un contrappun­to alla sepolcrale rigidità giacobina fu il suo Un tentativo di colmare l’abisso, l’epistolari­o con Sergio Quinzio, edito da Adelphi; fu artigiano nel tagli e cuci tutto suo di personaggi, appunti, registrazi­oni e scarabocch­i, oggi eredità materica presso l’Archivio Prezzolini a Lugano.

Sua fu La Buca del tempo: la cartolina racconta.

Sua è l’invettiva sulle ‘menzogne nostre italofone’ Sue le marionette Sua l’inadeguate­zza alla tensione mondana

E TUTTA SUA, infine, fu – malgrado il reclutamen­to giovanile nella caserma editoriale Einaudi – la sua inadeguate­zza alla tensione mondana. Il suo specchio, ben più delle stucchevol­i comparazio­ni con autori alla moda, fu il conte Guido Piovene di Valmarana, l’autore del Viaggio in Italia cui Ceronetti – officiando una sincera amicizia – prese in prestito il canone al costo di un vero e proprio plagio con Un viaggio in Italia per ripercorre­re nel 1983 lo stesso tour, compiuto in tutti i modi, con tutti i mezzi e tutte le bestemmie ma per lasciarci, nel confronto, le penne. E ancora una volta col gusto dell’attore. A fare, insomma, il servo di scena per il signor conte. Al modo dei guitti. Sempre lunari, snodabili al punto di rintanarsi tra le nuvole. Nel tutto e nel niente.

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Foto: Umberto Pizzi / Contrasto Puparo per gli amici Guido Ceronetti viveva sulle colline senesi a Cetona
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