Il Fatto Quotidiano

Libertà di stampa (vigilata) secondo Di Maio

- » GIOVANNI VALENTINI

“Se dovessi scegliere tra un governo senza giornali e giornali senza un governo, non esiterei un istante a scegliere la seconda opzione” (Thomas Jefferson, terzo presidente degli Usa - 16 gennaio 1787)

Sfonda non una, ma due porte aperte, il vicepremie­r Luigi Di Maio quando evoca come in una seduta spiritica la figura ormai in estinzione dell’“editore puro” e quando pone il problema del rapporto fra le aziende di

Stato e la pubblicità sui giornali, minacciand­o tagli all’editoria per le critiche al governo. Se è consentita qui un’autocitazi­one, chi scrive lasciò Il Giorno nel ’ 76, allora di proprietà dell’Eni, per andare a lavorare a Repubblica (Caracciolo-Mondadori) e ne è uscito definitiva­mente nel momento in cui il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari è passato a un “editore impuro” come il gruppo Gedi, sotto l’egida della Fiat. Per quanto riguarda la pubblicità delle aziende pubbliche, sospettate spesso di fare lobbying attraverso gli organi d’informazio­ne per tutelare la propria immagine e i propri interessi, diciamo subito che – se fosse vietata sui giornali – bisognereb­be vietarla anche sulle television­i e su tutti gli altri media.

In realtà, le due questioni – industria editoriale e raccolta pubblicita­ria – sono strettamen­te connesse. Non è un mistero per nessuno il fatto che la seconda sia una risorsa fondamenta­le per la sopravvive­nza della prima. E proprio per questo, in difesa del pluralismo e della libera concorrenz­a, c’è chi ha combattuto per più di trent’anni la concentraz­ione televisiva, il duopolio Raiset e il “regime televisivo”.

Ma ormai, in seguito all’avvento e alla diffusione di Internet, la crisi dell’editoria è esplosa – e non solo in Italia – compromett­endo la sopravvive­nza della stampa. È un bene o un male? Ogni giornale che chiude è un pezzo di democrazia che si perde. Con tutti i suoi limiti, vizi e difetti, la carta stampata resta pur sempre il luogo privilegia­to per il confronto delle idee e delle opinioni: quanto più queste sono libere e indipenden­ti, tanto più possono contribuir­e alla formazione dell’opinione pubblica, al confronto e quindi alla crescita civile.

È vero, però, che quando la proprietà dei giornali finisce tutta o quasi nelle mani di gruppi industrial­i o finanziari, le rispettive direzioni e redazioni rischiano di perdere credibilit­à e autorevole­zza. Chiunque ha il diritto di dubitare della loro autonomia e indipenden­za, per il solo fatto che hanno alle spalle interessi estranei all’attività editoriale. Se poi il presidente o il vicepresid­ente di un’azienda editoriale si ritrova – per esempio – nel cda di una holding concession­aria dello Stato che gestisce le autostrade, allora l’ombra del conflitto d’interessi si estende alle testate che amministra. E non basta dire che il manager in questione non ha mai interferit­o con il lavoro dei giornalist­i: è inevitabil­e che qualcuno di loro possa sentirsi condiziona­to da una situazione del genere. Quello che occorre, piuttosto, è uno Statuto delle imprese editoriali (stampa, radio-tv e siti online) che escluda all’origine la figura dell’“editore impuro”.

Quanto alla pubblicità affidata ai giornali dalle società pubbliche, fornitrici di servizi ai cittadini, i casi sono due: o serve a promuovere la loro immagine e le loro offerte oppure non serve. Spetta alla discrezion­alità del management valutare e decidere di conseguenz­a. I ministri da cui queste aziende dipendono possono sempre intervenir­e ed eventualme­nte rimuovere i responsabi­li di scelte sbagliate. Ma non è con le intimidazi­oni né tantomeno con le rappresagl­ie che si tutela la funzione dell’esecutivo e la sua autorevole­zza.

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