DISCARICA DI BUSSI ROMANDINI “FU SCORRETTO”
Era il 13 maggio 2015 quando il Fatto rivelava le “gravi scorrettezze” che aleggiavano sul processo di primo grado per la discarica Montedison di Bussi. Le “gravi scorrettezze” avevano preceduto una sentenza che, in primo grado, il 19 dicembre 2014, aveva derubricato il reato di disastro ambientale in disastro colposo. E aveva quindi giudicato gli imputati non colpevoli per sopraggiunta prescrizione. Ieri il Csm ha riconosciuto – si tratta del terzo pronunciamento di un giudice sulla questione – che il Fattoaveva scritto la verità. In molti, in attesa di leggere le motivazioni, possono – anche a ragione – sostenere che la condanna subita dal giudice Camillo Romandini, ovvero la perdita di due mesi di anzianità, sia pari a uno scappellotto. E che la montagna – un processo penale e uno disciplinare – abbia in fondo partorito il più classico dei topolini.
LA RICHIESTA dell’accusa – sospensione dall’attività per ben sei mesi – era senza dubbio più pesante. Ed è altrettanto vero che molti punti oscuri restano, nonostante le indagini svolte in un procedimento penale, terminato con un’archiviazione, e in un disciplinare, per quanto terminato ieri con una condanna. In questo caso, però, il topolino resterà lì per sempre a mostrare quanto gran- de fosse la vera montagna che l’ha partorito: uno dei processi più importanti della storia abruzzese, forse il più importante, senza dubbio tra i più delicati della storia del Paese.
Nel febbraio del 2017, la Corte d’assise d’appello riconosce che a Bussi vi fu, grazie a chi gestì quella discarica, all’epoca dei fatti in mano alla Montedison, un avvelenamento colposo delle acque. Non solo. Vi fu anche un disastro colposo che questa volta fu giudicato “aggravato”. Il che ribaltò la sentenza di primo grado, poiché furono ricalcolati i tempi e si stabilì che non agiva alcuna prescrizione. Per comprendere la posta in gioco di questo processo, basti pensare che tra i difensori degli imputati c’ era Paola Severino, ex ministro della Giustizia. E che il presidente della Corte d’Assise, Geremia Spiniello, fu ricusato nel febbraio 2014, dieci mesi prima della sentenza, per aver espresso pubblicamente un parere – “faremo giustizia per il territorio” – sul processo. Prese il suo posto Camillo Romandini che, come scrisse il Fatto all’epoca, a poche ore dalla sentenza, incontrò a cena le giudici popolari e le rese edotte su quel che sarebbe accaduto, per la responsabilità civile dei giudici, se avessero condan- nato per dolo gli imputati e questi ultimi, in secondo grado, fossero stati assolti. “Le va di giocarsi tutto questo?”, disse alla giudice proprietaria del ristorante dove avvenne la cena. Le giudici confidarono al Fatto che avrebbero voluto condannare per dolo. Ma questo non avvenne e non sappiamo – perché nessun giudice può rivelarlo – quel che accadde in camera di consiglio.
QUEL CHE sappiamo è che si arrivò a una prescrizione – perché il reato fu considerato senza aggravanti, secondo l’appello – e agli imputati fu risparmiata la pena. Il punto è che, sebbene di responsabilità civile si discutesse, in quei giorni la norma non era vigente. E nessuno avrebbe potuto giocarsi alcunché, tantomeno un ristorante. Oggi Romandini s’è invece giocato la sua credibilità. Al di là dei due mesi d’anzianità persi, è questo quel che conta. E l’ha persa commettendo una “grave scorrettezza” proprio su un processo così importante. La condanna – lieve o pesante che sia, su questo punto, poco importa – dimostra anche qualcos’altro: un giornalismo libero e indipendente, con le sue inchieste, può ancora mettere all’angolo chi è “scorretto”, qualsiasi ruolo abbia, rivelando l’osceno. Nella storia del processo di Bussi, la montagna resterà legata per sempre al suo topolino.
LA VERITÀ DEL “FATTO” Prima della sentenza che trasformò il reato da disastro ambientale a colposo il magistrato influenzò le giudici popolari