INSULTI INUTILI AI CAPI POPULISTI
Accusare di fascismo i movimenti euro-critici serve a poco: i loro elettori non si riconoscono nei valori, nei miti e nei simboli della destra, queste prediche finiscono solo per rafforzare la convinzione nel voto di protesta
Il voto del Parlamento europeo sul rapporto che ha messo sotto accusa il governo ungherese per le asserite infrazioni ai “principi fondatori” dell’Ue ha sollevato fra gli avversari del populismo un’ondata di entusiasmo.
Un illustre editorialista ha parlato di un “primo segnale” lanci ato contro i disgregatori dell’ordine liberale, altri hanno parlato di un “duro colpo” al progetto di coordinamento continentale delle formazioni euroscettiche patrocinato da Steve Bannon. Un coro quasi unanime di commenti radiotelevisivi ha seguito lo spartito. Tutti coloro che gli hanno prestato la voce e la tastiera del computer sono evidentemente convinti che mettere alla berlina Viktor Orbán e tacciarne l’azione come un continuo attentato alla democrazia sia l’inizio di una strategia di ar- ginamento e contrattacco del fenomeno detestato destinata ad averne ragione in tempi più o meno brevi. Sbagliano.
La vicenda è solo la penultima delle tante mosse errate che da anni costellano l’azione degli antipopulisti; l’ultima l’ha compiuta il Commissario europeo Pierre Moscovici, evocando i “piccoli Mussolini” del Vecchio continente. Moscovici è uno dei massimi esponenti di un partito, quello socialista francese, che sta agonizzando e non riesce ancora a rendersi conto di come la sua storia sia stata terremotata dal trio Macron-Le Pen-Mélenchon, che di argomenti populisti ha persino abusato. Agitare lo spettro del fascismo contro i colpevoli di tale scempio deve essergli sembrato il modo più adeguato per esprimere la sua rabbia. L’ormai frequente semi-fascistizzazione dei movimenti populisti, l’imputazione nei loro confronti di una vocazione antidemocratica e l’agitazione di paragoni fra il secondo decennio del Ventunesimo secolo e il periodo fra le due guerre mondiali non solo stanno dimostrandosi inefficaci, ma si trasformano spesso in altrettanti boomerang. Perché è difficile inculcare nella testa dei potenziali sostenitori dei Salvini, degli Orbán, delle Le Pen, dei Wilders un paragone con le figure più demonizzate della storia recente: all’orizzonte, costoro non vedono né uniformi, né raduni di stile militare, né tumulti e scontri di piazza, né assalti alle aule parlamentari. E, se sui giornali o sui siti web si imbattono in qualche saluto romano, lo ad addebitano agli anacronistici residuati di un’epoca passata che vivacizzano la lunatic fringe del marginalismo estremista: soggetti che, in tutta Europa, faticherebbero a mettere insieme uno 0,5% di voti.
Confondere populismo ed estrema destra può essere visto come un argomento di peso, ma non lo è. Perché il primo ha di mira, come base del proprio consenso, il fatidico “uomo qualunque”, che, per dirla alla Giannini, vuole essere lasciato in pace, diffida di tutto ciò che è estraneo alle abitudini con cui si è formato (da ciò, oggi, una certa sua propensione alla xenofobia), detesta corruzione, sprechi e inefficienza e ama tranquillità e sicurezza; il che lo porta a non avere alcuna inten- zione di attivarsi politicamente, se non per infilare ogni tanto una scheda nell’urna. La seconda sogna legioni di “guerrieri dell’Id e a” pronti a mobilitarsi, si alimenta di presunzioni di superiorità (anche razziale), indulge alla violenza e resta convinta che il potere, alla fin fine, si conquista con la forza. Tra i due soggetti c’è una distanza siderale, che la convergenza di giudizi su alcune questioni – l’immigrazione – non modifica. E chi vota populista sa bene di non avere nulla a che spartire con qualche manipolo di scalmanati; quindi le accuse di esserne semplicemente una versione artificiosamente moderata e camuffata non lo tange e non lo scuote. Anzi: lo irrita e lo spinge a perseverare, prendendosela con chi gli fa quelle prediche infondate.
Ma questo non è l’unico errore che i refrattari al populismo stanno commettendo. Un altro si connette all’uso alternato di argomenti dall’eccessiva carica emotiva, un giorno apocalittici e l’in doma ni entusiastici. Si drogano le aspettative prima di ogni cimento elettorale paventando strabilianti successi del partito populista di turno e, se questo raccoglie un consenso un po’ meno cospicuo di quello atteso subito si suonano le trombe della vittoria, pensando che ciò significhi l’imminente scomparsa del nemico; ma né Marine Le Pen, né Geert Wilders né i Democratici svedesi sono stati o saranno spazzati via da risultati inferiori alle attese. I sondaggi attestano che il loro elettorato, oggi, è tutt’altro che volatile. E reagisce negativamente alla tracotanza di chi lo vilipende trattandolo da idiota, razzista o retrogrado. Il caso Orbán, probabilmente, non farà eccezione alla regola: anzi, l’oltre 50 per cento di ungheresi che lo sostiene prenderà gli schiamazzi degli europarlamentari dopo il voto sanzionatorio come l’ennesima prova che l’Unione europea non è un’istituzione amica ma il covo dei nemici del proprio Paese, e rafforzerà il suo euroscetticismo.
Il palese disprezzo per i sostenitori dei movimenti populisti è il più grave dei difetti di chi intende bloccare la loro avanzata. Come qualunque manuale di marketing politico insegna, se si vuole catturare il voto di un elettore, bisogna capire quali sono le sue preferenze, le sue aspettative, il suo modo di sentire e di ragionare e cercare di convincerlo di possedere le risposte giuste alle sue domande e alle sue ansie. L’intellettuale che, dal suo empireo mediatico, lancia strali contro il “voto di pancia” dell’elettore leghista o lepenista – dimenticando magari i molti anni in cui il voto di pancia (non abbastanza piena) delle classi subalterne per il Pci non lo disturbava affatto, e anzi lo rallegrava – o lo dileggia perché dà retta alle “percezioni” dei fenomeni e non ai dati reali che dovrebbero farlo riflettere e ravvedere, ottiene di regola un risultato opposto a quello atteso. Perché nella vita quotidiana di ciascuno di noi, da sempre, le percezioni esercitano un’influenza ben maggiore di qualunque tabella statistica: se sentiamo un caldo insopportabile e il meteorologo ci dice che abbiamo percepito 40 gradi ma in realtà ce n’erano 32, è lo “scienziato” quello che mandiamo al diavolo. E se percepiamo in un interlocutore un atteggiamento di un tipo o di un altro, è sulla base di quel che sentiamo che orientiamo i nostri comportamenti: non possiamo leggergli nell’animo se non attraverso sensazioni, giuste o sbagliate che siano. L’elettore populista, effettivo o potenziale, “sente” disagio in una società che gli pare “invasa” da alieni, che non di rado hanno comportamenti per lui incomprensibili o sgraditi. Che gli sbarchi dalla Libia siano calati (pur, comunque, aumentando il numero degli arrivati), poco gli importa.
Con questi dati di fatto, chi intende combattere la presa del populismo deve fare i conti. Il solo modo per raggiungere il suo scopo è prosciugare il terreno su cui il fenomeno prospera. Cioè trovare soluzioni ai problemi, ai disagi, alle paure che lo alimentano, non rifiutarsi di ammetterli. Anche in questo campo, il negazionismo non paga. E fa danni a chi lo propaga.
ANTIPODI Il disprezzo verso i sostenitori dei vari Salvini e Le Pen è il difetto più grave di chi vuole fermarli