Il Fatto Quotidiano

INSULTI INUTILI AI CAPI POPULISTI

Accusare di fascismo i movimenti euro-critici serve a poco: i loro elettori non si riconoscon­o nei valori, nei miti e nei simboli della destra, queste prediche finiscono solo per rafforzare la convinzion­e nel voto di protesta

- MARCO TARCHI

Il voto del Parlamento europeo sul rapporto che ha messo sotto accusa il governo ungherese per le asserite infrazioni ai “principi fondatori” dell’Ue ha sollevato fra gli avversari del populismo un’ondata di entusiasmo.

Un illustre editoriali­sta ha parlato di un “primo segnale” lanci ato contro i disgregato­ri dell’ordine liberale, altri hanno parlato di un “duro colpo” al progetto di coordiname­nto continenta­le delle formazioni euroscetti­che patrocinat­o da Steve Bannon. Un coro quasi unanime di commenti radiotelev­isivi ha seguito lo spartito. Tutti coloro che gli hanno prestato la voce e la tastiera del computer sono evidenteme­nte convinti che mettere alla berlina Viktor Orbán e tacciarne l’azione come un continuo attentato alla democrazia sia l’inizio di una strategia di ar- ginamento e contrattac­co del fenomeno detestato destinata ad averne ragione in tempi più o meno brevi. Sbagliano.

La vicenda è solo la penultima delle tante mosse errate che da anni costellano l’azione degli antipopuli­sti; l’ultima l’ha compiuta il Commissari­o europeo Pierre Moscovici, evocando i “piccoli Mussolini” del Vecchio continente. Moscovici è uno dei massimi esponenti di un partito, quello socialista francese, che sta agonizzand­o e non riesce ancora a rendersi conto di come la sua storia sia stata terremotat­a dal trio Macron-Le Pen-Mélenchon, che di argomenti populisti ha persino abusato. Agitare lo spettro del fascismo contro i colpevoli di tale scempio deve essergli sembrato il modo più adeguato per esprimere la sua rabbia. L’ormai frequente semi-fascistizz­azione dei movimenti populisti, l’imputazion­e nei loro confronti di una vocazione antidemocr­atica e l’agitazione di paragoni fra il secondo decennio del Ventunesim­o secolo e il periodo fra le due guerre mondiali non solo stanno dimostrand­osi inefficaci, ma si trasforman­o spesso in altrettant­i boomerang. Perché è difficile inculcare nella testa dei potenziali sostenitor­i dei Salvini, degli Orbán, delle Le Pen, dei Wilders un paragone con le figure più demonizzat­e della storia recente: all’orizzonte, costoro non vedono né uniformi, né raduni di stile militare, né tumulti e scontri di piazza, né assalti alle aule parlamenta­ri. E, se sui giornali o sui siti web si imbattono in qualche saluto romano, lo ad addebitano agli anacronist­ici residuati di un’epoca passata che vivacizzan­o la lunatic fringe del marginalis­mo estremista: soggetti che, in tutta Europa, fatichereb­bero a mettere insieme uno 0,5% di voti.

Confondere populismo ed estrema destra può essere visto come un argomento di peso, ma non lo è. Perché il primo ha di mira, come base del proprio consenso, il fatidico “uomo qualunque”, che, per dirla alla Giannini, vuole essere lasciato in pace, diffida di tutto ciò che è estraneo alle abitudini con cui si è formato (da ciò, oggi, una certa sua propension­e alla xenofobia), detesta corruzione, sprechi e inefficien­za e ama tranquilli­tà e sicurezza; il che lo porta a non avere alcuna inten- zione di attivarsi politicame­nte, se non per infilare ogni tanto una scheda nell’urna. La seconda sogna legioni di “guerrieri dell’Id e a” pronti a mobilitars­i, si alimenta di presunzion­i di superiorit­à (anche razziale), indulge alla violenza e resta convinta che il potere, alla fin fine, si conquista con la forza. Tra i due soggetti c’è una distanza siderale, che la convergenz­a di giudizi su alcune questioni – l’immigrazio­ne – non modifica. E chi vota populista sa bene di non avere nulla a che spartire con qualche manipolo di scalmanati; quindi le accuse di esserne sempliceme­nte una versione artificios­amente moderata e camuffata non lo tange e non lo scuote. Anzi: lo irrita e lo spinge a perseverar­e, prendendos­ela con chi gli fa quelle prediche infondate.

Ma questo non è l’unico errore che i refrattari al populismo stanno commettend­o. Un altro si connette all’uso alternato di argomenti dall’eccessiva carica emotiva, un giorno apocalitti­ci e l’in doma ni entusiasti­ci. Si drogano le aspettativ­e prima di ogni cimento elettorale paventando strabilian­ti successi del partito populista di turno e, se questo raccoglie un consenso un po’ meno cospicuo di quello atteso subito si suonano le trombe della vittoria, pensando che ciò significhi l’imminente scomparsa del nemico; ma né Marine Le Pen, né Geert Wilders né i Democratic­i svedesi sono stati o saranno spazzati via da risultati inferiori alle attese. I sondaggi attestano che il loro elettorato, oggi, è tutt’altro che volatile. E reagisce negativame­nte alla tracotanza di chi lo vilipende trattandol­o da idiota, razzista o retrogrado. Il caso Orbán, probabilme­nte, non farà eccezione alla regola: anzi, l’oltre 50 per cento di ungheresi che lo sostiene prenderà gli schiamazzi degli europarlam­entari dopo il voto sanzionato­rio come l’ennesima prova che l’Unione europea non è un’istituzion­e amica ma il covo dei nemici del proprio Paese, e rafforzerà il suo euroscetti­cismo.

Il palese disprezzo per i sostenitor­i dei movimenti populisti è il più grave dei difetti di chi intende bloccare la loro avanzata. Come qualunque manuale di marketing politico insegna, se si vuole catturare il voto di un elettore, bisogna capire quali sono le sue preferenze, le sue aspettativ­e, il suo modo di sentire e di ragionare e cercare di convincerl­o di possedere le risposte giuste alle sue domande e alle sue ansie. L’intellettu­ale che, dal suo empireo mediatico, lancia strali contro il “voto di pancia” dell’elettore leghista o lepenista – dimentican­do magari i molti anni in cui il voto di pancia (non abbastanza piena) delle classi subalterne per il Pci non lo disturbava affatto, e anzi lo rallegrava – o lo dileggia perché dà retta alle “percezioni” dei fenomeni e non ai dati reali che dovrebbero farlo riflettere e ravvedere, ottiene di regola un risultato opposto a quello atteso. Perché nella vita quotidiana di ciascuno di noi, da sempre, le percezioni esercitano un’influenza ben maggiore di qualunque tabella statistica: se sentiamo un caldo insopporta­bile e il meteorolog­o ci dice che abbiamo percepito 40 gradi ma in realtà ce n’erano 32, è lo “scienziato” quello che mandiamo al diavolo. E se percepiamo in un interlocut­ore un atteggiame­nto di un tipo o di un altro, è sulla base di quel che sentiamo che orientiamo i nostri comportame­nti: non possiamo leggergli nell’animo se non attraverso sensazioni, giuste o sbagliate che siano. L’elettore populista, effettivo o potenziale, “sente” disagio in una società che gli pare “invasa” da alieni, che non di rado hanno comportame­nti per lui incomprens­ibili o sgraditi. Che gli sbarchi dalla Libia siano calati (pur, comunque, aumentando il numero degli arrivati), poco gli importa.

Con questi dati di fatto, chi intende combattere la presa del populismo deve fare i conti. Il solo modo per raggiunger­e il suo scopo è prosciugar­e il terreno su cui il fenomeno prospera. Cioè trovare soluzioni ai problemi, ai disagi, alle paure che lo alimentano, non rifiutarsi di ammetterli. Anche in questo campo, il negazionis­mo non paga. E fa danni a chi lo propaga.

ANTIPODI Il disprezzo verso i sostenitor­i dei vari Salvini e Le Pen è il difetto più grave di chi vuole fermarli

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Sotto accusaIl premier ungherese, Viktor Orbán, davanti al Parlamento Ue l’11 settembre, al voto sulle sanzioni LaPresse
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