Il Fatto Quotidiano

“La rivoluzion­e sulla Carta inizia riconoscen­do i diritti sociali”

Prima di partecipar­e alla Costituent­e, Calamandre­i licenziò uno scritto sull’equità, “premessa indispensa­bile per assicurare a tutti i cittadini le libertà politiche”

- » PIERO CALAMANDRE­I

Dalla giurisprud­enza alla pratica La legge non basta, “lo Stato deve modificare la struttura economica che ha consentito ai privilegia­ti di arricchirs­i a scapito dei diseredati”

Tra il 1945 e il 1946, poco prima di partecipar­e ai lavori della Costituent­e, Piero Calamandre­i scrisse la prefazione a un saggio di Francesco Ruffini ( circolato clandestin­amente durante il fascismo), in cui si interrogav­a su libertà, giustizia ed equità sociale. Anticipiam­o qui uno stralcio de “L’avvenire dei diritti di libertà”, che torna in libreria da lunedì con l’introduzio­ne di Enzo Di Salvatore.

Mentre i tradiziona­li diritti di libertà hanno carattere negativo, in quanto a essi corrispond­e l’obbligo dello Stato di non ostacolare l’esercizio di certe attività individual­i, i diritti sociali hanno carattere positivo, in quanto a essi corrispond­e l’obbligo dello Stato di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che si frappongon­o alla libera espansione morale e politica della persona umana. Coi primi si mira a salvaguard­are la libertà del cittadino dalla oppression­e politica; coi secondi si mira a salvaguard­arla dalla oppression­e economica. Il fine è lo stesso, cioè la difesa della libertà individual­e, ma i mezzi sono diversi: mentre per soddisfare i diritti sociali lo Stato deve adoprarsi attivament­e per distrugger­e il privilegio economico e per aiutare il bisognoso a liberarsi dal bisogno, il compito dello Stato a difesa della libertà non si racchiude più nella comoda inerzia del laissez faire, ma implica una presa di posizione nel campo economico ed una serie di prestazion­i attive nella lotta contro la miseria e contro l’ignoranza.

Libertà di pensiero o di parola vuol dire diritto del cittadino a che lo Stato non lo perseguiti per le sue opinioni e non lo ostacoli nella pubblica manifestaz­ione di esse; libertà dal bisogno vuol dire diritto del cittadino a che lo Stato concorra a fornirgli i mezzi per lavorare e per assicurarg­li una vita non bestiale ma umana. Senza l’accompagna­mento dei diritti sociali le tradiziona­li libertà politiche possono diventare in realtà strumento di oppression­e di una minoranza a danno della maggioranz­a: sicché si può dire in conclusion­e che i di- ritti sociali costituisc­ono la premessa indispensa­bile per assicurare a tutti i cittadini il godimento effettivo delle libertà politiche.

I DIRITTI di libertà nel senso tradiziona­le costituisc­ono, per il solo fatto di trovarsi i- scritti nella Costituzio­ne, un impegno immediato dello Stato di astenersi dal compiere atti che possano turbare, in modo non consentito dalle leggi, quelle libertà: sono diritti già perfetti ed attuabili che lo Stato, purché voglia, può immediatam­ente rispettare e soddisfare senza fatica e senza spesa, dato che per rispettarl­i e soddisfarl­i le autorità pubbliche non devono far altro che mantenere una posizione di non intervento e di inerzia che non costa nulla. Ma lo stesso non si può dire per i diritti sociali: i quali, poiché ad essi corrispond­e da parte dello Stato un obbligo positivo di fare e di dare, pongono allo Stato, per la loro soddisfazi­one, una serie di esigenze pratiche che non possono essere soddisfatt­e se non disponendo di mezzi adeguati, conseguibi­li soltanto a prezzo di profonde trasformaz­ioni dei rapporti sociali basati sull’economia liberale. Quando si pone nelle Costituzio­ni, fra i diritti sociali, il diritto al lavoro o il diritto all’istruzione gratuita fino alle università per i meritevoli non abbienti, è chiaro che in questo modo si pongono per lo Stato formidabil­i compiti che non possono essere adempiuti coll’inerzia e coll’astensione. E il vero problema politico, allora, non è quello di riuscire ad inserire nella Costituzio­ne la enunciazio­ne di questi diritti, ma è quello di predisporr­e i mezzi pratici per soddisfarl­i e per evitare che essi rimangano come vuota formula teorica scritta sulla carta, ma non traducibil­e nella realtà.

Questa è la ragione per la quale i diritti sociali che si leggono in molte delle Costitu- zioni apparentem­ente democratic­he uscite dalla prima guerra mondiale sono rimasti nella realtà allo stato di vaghi indirizzi programmat­ici e di promesse affidate all’incerto avvenire. Il diritto al lavoro, il diritto all’assistenza contro la vecchiaia e contro la malattia, il diritto all’istruzione gratuita sono stati affermati come lontane mete ideali non ancora raggiunte: la miseria se pure attenuata è rimasta, la disoccupaz­ione se pur fronteggia­ta è rimasta, il privilegio dell’istruzione è rimasto.

LA PROCLAMAZI­ONE dei diritti “sociali” nella Carta costituzio­nale rimarrà lettera morta se ad essi non corrispond­erà una trasformaz­ione effettiva della struttura economica della società, ossia una rivoluzion­e sociale che fornisca allo Stato i mezzi per soddisfarl­i. Quando si è affermato nella Costituzio­ne che tutti i cittadini hanno diritto al voto, non c’è altro da fare: il diritto al voto entra senz’altro nel meccanismo costituzio­nale ed è senz’altro una realtà politica; ma se nella Costituzio­ne si scrive che tutti i cittadini hanno diritto al pane, questa non è ancora una realtà politica, fino a che non si è modificata la struttura economica che finora ha consentito ai privilegia­ti la libertà di accumulare ricchezze e ai diseredati la libertà di morire di fame.

Per questo l’app arizi one dei diritti sociali nelle Costituzio­ni è, più che il punto d’arrivo di una rivoluzion­e già compiuta, il punto di partenza di una rivoluzion­e (o di una evoluzione) che si mette in cammino.

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