Il Fatto Quotidiano

Viaggio tra i figli dei clan da strappare alla violenza

- » MADDALENA OLIVA

Ilsangue è sangue, dicono da queste parti. E il sangue si mastica, ma non si sputa. Pure quando fa male ingoiare. “Io in carcere da mio padre non ci volevo andare. Non era per lui. Mia madre mi diceva: ‘Vieni, ti devo portare’. E io niente. Ero piccolo, 5 anni. Ogni volta iniziavo a vomitare”, racconta A.

Aè nato e cresciuto a Forcella, a due passi dai Decumani e dalla via dei presepi, in quel quartiere che prima fu il Regno di Lovegino Giuliano e poi dei suoi nipoti: quei Giuliano che, insieme alla paranza dei fratelli Sibillo, hanno terrorizza­to il centro di Napoli e ispirato la penna di Roberto Saviano. A. da anni non abita più nel ventre molle della città, ultima tra le grandi ad avere la periferia in pancia, A. vive a migliaia di chilometri di distanza.

“A CASA siamo cresciuti solo con mammà, papà stava chiu

so. Non è una novità di oggi per me pensare che il carcere faccia schifo. Una persona, per stare là dentro, non ha valore. Non ha carattere. Non ha la testa di dire: voglio vivere bene, voglio far crescere i miei figli come si deve anziché come rifiuti. Perché a Napoli già si cresce sbandati... i ragazzi, le madri, li prendono e li buttano in strada. L’ho capito meglio da quando sono lontano. Per me mio figlio deve crescere come dio comanda. Purtroppo io ho una famiglia in cui quasi tutti hanno precedenti. Forse sono l’unico che si salva, insieme a un fratello di mio padre. Per il resto, anche le donne da noi sono pregiudica­te. Forse, restando a Napoli, cercavo la morte. Ora mi sento invece che sto cambiando perché sto iniziando a vedere la luce, davanti agli occhi. A Napoli vedevo solo buio perché frequentav­o sempre il male. Immagino che la mia vita sarebbe stata molto diversa se fossi nato altrove. Immagino… però può darsi che sarebbe anche stata uguale, ma almeno non avrei dovuto frequentar­e persone che non andavano bene per me”.

LIBERI DI SCEGLIERE chi essere, chi diventare. Senza avere il destino segnato, solo perché si è nati con un determinat­o cognome, o in un determinat­o quartiere. Allontanar­e i minori da contesti familiari mafiosi, fino a togliere o limitare la responsabi­lità genitorial­e, è una delle questioni più dibattute, e non solo all’interno della magistratu­ra che si sta interrogan­do sul tema, grazie ai provvedime­nti apripista adottati negli ultimi anni dai tribunali dei minori di Reggio Calabria e di Napoli.

Il presidente del Tribunale per i minori del capoluogo reggino Roberto Di Bella – che indossa la toga da 30 anni, più o meno quanti ha dedicato alla giustizia minorile – è convinto che la ’ndrangheta si erediti: “Sono a Reggio dal ’93. In tutti questi anni abbiamo trattato più di 100 procedimen­ti relativi a minori per reati di criminalit­à organizzat­a, e più di 50 processi per omicidio e tentato omicidio: oggi mi trovo a giudicare i figli di coloro che giudicavo negli anni ’90 più o meno per gli stessi reati. Tutti con lo stesso cognome. E il dato impression­ante è che abbiamo di fronte una generazion­e che potevamo salvare, e che invece abbiamo abbandonat­o”.

LA MALAPIANTA trae prima di tutto linfa dal sangue. Ma se usciamo dalla Calabria, e allarghiam­o lo sguardo? I minori coinvolti in episodi criminali, spiega Gemma Tuccillo, a capo del Dipartimen­to per la giustizia minorile, dal punto di vista delle biografie presentano tratti convergent­i: “Sono, nei profili più gravi, contigui alla criminalit­à organizzat­a per ragioni di appartenen­za familiare, o per la provenienz­a da quartieri ad alta densità mafiosa. Più in generale, sono minori che vivono in zone periferich­e e degradate, inseriti in contesti familiari segnati da disgregazi­one o da gravi forme di disagio affettivo, economico o abitativo”.

Qualche dato su tutti, solo guardando alla Campania: il 22% dei minori vive in condizioni di povertà relativa; 1 su 3 abbandona prematuram­ente la scuola; 7 bambini su 10 non sono mai andati a teatro o a visitare mostre; 7 bambini su 10 non hanno mai fatto sport. Ecco perché, secondo molti, “la diffusione dei comportame­nti criminali, quando investe ampie fasce di popolazion­e giovanile come a Napoli e nel Sud, è innanzitut­to un immane problema sociale e politico”, sottolinea Nicola Quatrano, giudice, ora in pensione, che tra tanti processi seguiti nella lunga carriera a Napoli si è occupato della paranza dei bambini. Per lui, la misura dell’allontanam­ento dei figli risponde a un’impostazio­ne repressiva e sanzionato­ria non tanto verso i tipi di reato quanto verso il contesto, la famiglia da cui si è nati.

“UNA ‘SANZIONE’ aggiuntiva per quella che io chiamo ‘la criminalit­à della plebe’. Bisogna invece affrontare la questione con maggiore, e migliore, attenzione. Perché se è indubbio che crescere in un ambiente criminale può generare criminalit­à, è altrettant­o vero che pure la deprivazio­ne degli affetti familiari potrebbe provocare il medesimo risultato. Senza contare che non è affatto certo che interesse del bambino sia quello di diventare un disadattat­o onesto, piuttosto che un delinquent­e psichicame­nte equilibrat­o”.

“Se ci provano a toccarmi i figli, acca scoppia ’na guerra

nuclear’”. Grazia ha quattro figli maschi. Due sono detenuti a “Poggi Poggi”, il carcere di Poggioreal­e a Napoli: uno con un ergastolo – il grande, 23 an- ni – e l’altro con una condanna a 14 anni da scontare. “Avessi fatto quattro femmine! Mi sarei coricata con meno pensier i. . . ” e, mentre parla, i suoi grandi occhi azzurri sorridono, perché, come ama ripetere, nonostante tutto “più scuro della mezzanotte non può venire”. Grazia lava le scale tre volte alla settimana, venti euro al giorno quando va bene e lavora, e ha cresciuto quattro figli das ola–divenuta mamma a 16 anni – perché il marito era in carcere. “E ci è rimasto fino a quando non si sono fatti grandi i figli. Non siamo cattivi noi. È Napoli, è la città, che ti fa diventare cattivo. Però io non me ne andrei mai da casa mia. E non lascerei mai i miei figli andare lontano. Vivo per andarli a trovare in carcere, quella volta alla settimana. Io dico allo Stato: io a fare la mamma ci ho provato. Ho sbagliato. Giusto? Ma tu Stato che fai? Mi uccidi la vita, se mi togli un figlio. Uccidi la vita pure a lui”.

I RISULTATI dei primi provvedime­nti di allontanam­ento dei minori presi da Di Bella, a Reggio Calabria, raccontano altro. Così come anche le prime lettere che arrivano, non più solo dalle madri ma anche dai padri, in carcere, detenuti al 41bis. “Sono d’accordo con lei – scrive un boss a Di Bella – solo allontanan­dolo da questo ambiente, il mio bambino avrà un futuro migliore. Se avessi avuto io le stesse possibilit­à forse non sarei dove sono ora. Decida lei e stia tranquillo. Non farei mai più qualcosa che possa influire o danneggiar­e la vita di mio figlio”. “Questo ci dà speranza”, dice il procurator­e. Spezzare i vin-

“FORSE, RESTANDO A NAPOLI, CERCAVO LA MORTE. ORA MI SENTO INVECE CHE STO CAMBIANDO PERCHÉ INIZIO A VEDERE LA LUCE, DAVANTI AGLI OCCHI”

coli sacri del legame familiare sembra essere l’unico modo, per questi ragazzi, per aspirare a una vita diversa. Poi puoi scegliere, una volta compiuti i 18 anni, se tornare. Molti, specie le ragazze, non lo fanno. Di Bella lo chiama “Erasmus della legalità”. Entri in un mondo diverso. Torni a scuola, hai la possibilit­à di lavorare. Anche se i primi giorni, quelli del distacco, sono difficilis­simi. Ma, in caso di genitori che manifestin­o segni di ravvedimen­to, si fa di tutto per mantenere i rapporti, anche se c’è di mezzo il carcere. Tu minore sei seguito passo passo da psicologi e da operatori qualificat­i come Libera, con Vincenza Rando e il suo prezioso aiuto. Proprio lei, che fu avvocato di Lea Garofalo e poi di sua figlia Denise.

Gli sforzi devono concentrar­si sul concedere, una volta finito il percorso di allontanam­ento, delle opportunit­à legali a questi giovani. Altrimenti si torna al punto di partenza. E per evitarlo bisogna avere lo sguardo ampio. Quando entrano in campo magistrati come Di Bella o, a Napoli, Maria De Luzenbergh­er, è perché la situazione è già patologica­mente endemica. Se in alcune zone del Paese la cultura del malaffare è diffusa e le famiglie sono sempre le stesse, vuol dire che la scuola ha fallito. “Non abbiamo ricevuto segnalazio­ni dalle scuole sulla dispersion­e dei ragazzi nemmeno durante la faida di San Luca, quando – abbiamo scoperto solo durante il processo – le famiglie contrappos­te non mandarono i figli a scuola per paura di ritorsioni”. È proprio il sistema che sembra non reggere: sul piano culturale, sociale, economico. Basti pensare che su 97 comuni della provincia di Reggio Calabria, più dell’80% non ha servizi sociali. E anche nell’area di Napoli non va meglio: un assistente sociale ogni 5.600 abitanti. Ma per questo dovrebbe esserci la politica, dicono i magistrati. La sospension­e o la perdita della responsabi­lità genitorial­e è nel contratto di governo Lega-5 Stelle. Non è prevista per camorristi o ’ndrangheti­sti: solo per i rom.

Fine del welfare Sotto al Vesuvio c’è un assistente sociale ogni 5.600 abitanti. Va male anche in Calabria

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 ??  ?? Cyop & Kaf Hanno indagato nel profondo il rapporto tra i bambini e la città, con una prospettiv­a immersiva
Cyop & Kaf Hanno indagato nel profondo il rapporto tra i bambini e la città, con una prospettiv­a immersiva
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