Il Fatto Quotidiano

I “buchi neri” della Cina di Xi, dove spariscono i dissidenti

- » ANTONIO CARLUCCI

Michael Caster è uno studioso dei diritti umani e un militante appassiona­to. Quanto avviene in Cina è il centro della sua attività. La fotografia che offre sulla situazione attuale è questa: “Ne l l ’ era di Xi Jinping, l’assalto della Cina ai gruppi che si occupano di diritti umani ha raggiunto punte estreme, non viste neanche ai tempi del movimento pro democrazia del 1989 (la protesta e la strage di centinaia di giovani a piazza Tien An Men, ndr). Insieme ai progressi tecnologic­i, possibili anche per la complicità di società non cinesi, si è verificato un aumento senza precedenti nella capacità di controllo da parte della polizia e dello Stato”.

CHI IMMAGINAVA che la politica imperiale del leader cinese avrebbe portato oltre che crescita economica anche qualche libertà nel Paese, dovrebbe leggere il saggio di Carter sui protagonis­ti del movimento per i diritti umani che sono stati vittime della repression­e del regime capital-comunista. Si tratta di dodici storie di militanti per i diritti umani, in gran parte avvocati che avevano tra i loro clienti dissidenti accusati di “sovversion­e” ed “incitament­o al disordine”. Undici di queste sono state scritte in prima persona dai protagonis­ti, tutti scomparsi nel nulla e riaffiorat­i dopo mesi davanti ai tribunali o con l’annuncio che erano s o t t o “s o r v eglianza in località designate” e“sotto inchiesta per crimini contro la sicurezza dello Stato”. Una storia è stata scritta da Carter: quella di Xie Yang, avvocato della regione dello Yunan che aveva difeso molti attivisti. Scomparso nel 2015, dopo sei mesi di detenzione non comunicata, incontrò un legale e raccontò terribili torture. Ma al processo nel 2017 dichiarò di essere stato manipolato da potenze straniere e negò le torture subite, confessand­o le “colpe”.

Molti hanno ceduto a pressioni e privazioni nei “buchi neri”, le prigioni segrete dove i militanti vengono segregati. Molti altri non si sono piegati e sono scomparsi nel nulla, come l’avvocato Wang Quanzhang, sequestrat­o nel 2015 e riapparso a luglio del 2018 solo attraverso il racconto di un altro dissidente che sostiene di averlo visto nel centro di detenzione di Tianjin. La svolta repressiva è del 2015, quando il regime di Xi Jinping decise un’operazione in grande stile contro gli oppositori. Pochi mesi prima c’era stato un grande risveglio del movimento pro democrazia in ricordo di Tien An Men. Il governo cinese prese di mira soprattutt­o coloro che difendevan­o in giudizio gli attivisti perché rappresent­avano un pericoloso passaggio che avrebbe amplificat­o in ogni momento la protesta portandola dalla piazza al luogo deputato per l’atto finale della repression­e, il tribunale. Scomparver­o decine di avvocati e, a seguire, le loro famiglie furono oggetto di intimidazi­oni e rappresagl­ie, giunte fino a viltà come negare l’iscrizione alla scuola elementare al figlio di un dissidente.

Fu con quello che è stato definito il “709 crackdown” che venne alla luce il nuovo sistema di repression­e, ovviamente definito nel codice penale. È la norma chiamata con il suo abbreviati­vo Rsdl, ovvero “sorveglian­za residenzia­le in un luogo designato”: puoi essere prelevato e sparire in un buco nero della detenzione senza regole, perché la Rsdl stabilisce che la polizia non è obbligata a comunicare il luogo di detenzione, il diritto a ricevere la visita di avvocati e parenti è sospeso, neanche il magistrato può visitare il detenuto “per non ostacolare le indagini”.

Si tratta di un arbitrio totale, nato per riparare la falla che si era creata nel 2003 quando era in vigore il cosiddetto “custo- dia e rimpatrio” che permetteva alla polizia di arrestare chiunque senza dover comunicare il fatto. Accadde però che nel marzo del 2003, Sun Zhigang, lavoratore emigrato dalle campagne alla città di Guangzhou, morì in seguito ai maltrattam­enti subiti dopo un arresto non reso pubblico. Ne seguì, in una non prevista catena di eventi gestiti da persone perbene, il processo ai poliziotti e la condanna delle autorità a risarcire il danno. Bisognava evitare altri avveniment­i simili. Ed ecco la Rsdl.

OGGI, alle meraviglie sbandierat­e da Xi Jinping della nuova via della seta, del progresso economico, degli aiuti miliardari all’Africa, fa da contraltar­e una guerra sistematic­a e senza tentenname­nti contro qualsiasi atto che metta in discussion­e le libertà civili negate, la censura, la libertà di religione. La macchina repressiva si muove lungo cinque direttrici e altrettant­i obiettivi: i militanti dei diritti umani a cominciare dagli avvocati; tutti coloro che cercano di usare la rete per conquistar­e spazi di libertà, discussion­e e critica al regime; gli autonomist­i del Tibet, con i monaci al primo posto; gli uiguri di religione musulmana che vivono nello Xinjiang, il nord ovest della Cina; i democratic­i di Hong Kong che si rifiutano di piegarsi all’arbitrio di Pechino.

Se gli avvocati scompaiono nei “buchi neri”, coloro che cercano libertà attraverso la rete se la devono vedere con la censura che ha trovato un inaspettat­o alleato nelle grandi società occidental­i del settore a cominciare da Apple e Google: la prima ha accettato di chiudere i Vpn – le reti di comunicazi­oni private – utili per bypassare la censura, la seconda fornisce al governo tutte le informazio­ni sugli utenti e sulle loro attività in rete. Sul Tibet c’è sempre una cappa di piombo, e l’ultima invenzione per stroncare la protesta degli uiguri dissidenti, accusati di terrorismo solo perché musulmani, è quella dei campi di rieducazio­ne religiosa. In questa situazione, il disinteres­se sempre più manifesto dei Paesi occidental­i alimenta la repression­e. Abbagliati dal miraggio di fare affari coi cinesi, i governi statuniten­se ed europei hanno messo nel cassetto politiche attive di sostegno ai diritti umani in Cina. Basterebbe vedere le tiepide reazioni alla notizia che il dissidente e premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo era morto (luglio 2017) per tumore, in stato di detenzione in ospedale, e la moglie era scomparsa in qualche “buco nero” della polizia. Il regime di Xi ha approfitta­to di questa ritirata occidental­e.

NELL’APRILE 2017 Dolkun Isa, attivista uiguro, è stato cacciato dalle Nazioni Unite mentre era in attesa di parlare di minoranze etniche. Tre mesi dopo, a Roma, mentre si recava al Senato dove era stato invitato, Isa è stato fermato da agenti in borghese e portato via per le procedure di identifica­zione. La lunga mano del regime fa di tutto per portare dalla sua parte gli altri governi. A giugno del 2017 era atteso un intervento de ll ’ Unione europea all’a ssemblea annuale del Consiglio per i diritti umani delle Onu di Ginevra. Ma la Ue non ha parlato perché la Grecia ha posto il veto a un discorso in cui si criticava la Cina per la violazione sistematic­a dei diritti umani. Pochi giorni dopo, sempre Atene, si è opposta a controlli più accurati sugli investimen­ti cinesi nella Ue. Atene ha spiegato che il suo governo non è mai d’accordo con iniziative che contengano “critiche non costruttiv­e”. Ma la verità sta nei 500 milioni di euro che Pechino ha pagato per il porto del Pireo e nei contratti milionari che il premier Alexis Tsipras ha firmato in Cina.

Diplomazia Ammiccamen­ti agli altri governi: i greci sempre con Pechino grazie a 500 milioni di euro

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Ansa Il presidente Xi Jinping sfila in una parata in piazza Tien An Men
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Ansa Tocca pure a Hong Kong Attivisti democratic­i affrontati dalla polizia anche nell’ex colonia britannica
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