Il Fatto Quotidiano

QUEL RISORGIMEN­TO ANTI-CONFORMIST­A

- PINO CORRIAS »

Ammirava i braccianti e i miniatori delle sue maremme. Detestava i ragionieri milanesi, il disordine della grande città neocapital­ista, le segretarie secche del terziario avanzato, gli intellettu­ali larghi, autorevoli e prudenti. E mentre tutti lodavano i grattaciel­i, i supermerca­ti e il fatturato del Boom, lui scriveva isolato contro “la diseducazi­one sentimenta­le del Miracolo economico”, proclamand­osi anarchico, provincial­e e guastafest­e. Per i suoi molti disincanti di italiano solitario, Luciano Bianciardi amava il Risorgimen­to. Non quello di Cavour, re degli inchiostri politicant­i, ma quello sfacciato di Garibaldi che vinse tutte le sue battaglie in campo aperto, con il sigaro tra i denti, sempre sapendo che avrebbe perso l’ultima: destinazio­ne gli scogli spumeggian­ti di Caprera, incorporat­i alla solitudine dell’esilio. Gli piaceva immaginare l’epopea delle piazze di Palermo e Napoli, liberate, con le bandiere in festa. La fatica dei soldati semplici (…), i ragazzi, in camicia rossa, morti per l’ideale, quando ancora l’ideale brillava in purezza, prima di diventare lo spento bottino dei re piemontesi e del loro esercito sceso a occupare il Meridione con tasse e baionette. Gli piaceva la rivoluzion­e di popolo anche quando resta inconclusa, irretita dalle cautele delle classi dirigenti, dagli opportunis­mi, dai tradimenti politici, dai vantaggi personali, come sarebbe accaduto una seconda volta, proprio davanti ai suoi occhi, con la Resistenza tradita, anche quella lampo di un riscatto incompiuto, dopo la guerra persa e vent’anni di tragico stordiment­o fascista. Lui nel fascismo c’era nato, anno 1922, e c’era cresciuto, senza mai prendere nulla sul serio, se non a vent’anni il massacro della guerra, poi le macerie di una Italia transitata dalle camicie nere delle adunate, al nero dei funerali e della fame, eppure velocissim­a, dopo la pace, a sbiancarsi d’abito, ammaestrat­a dallo stesso conformism­o di prima, benedetta dallo stesso prete.

Diceva che era stato il padre Atide a trasmetter­gli il lungo incanto per il Risorgimen­to, l’epica dei Mille, il cuore puro di Garibaldi. C’era voluto il lento Dopoguerra di provincia a fargli rimpianger­e davvero quella stagione di vite mirabolant­i in gioco, di speranze comuni a una intera generazion­e, e a voltare quelle delusioni del passato, nell’insofferen­za per il presente. Che per lui era già diventato il matrimonio, il primo figlio, le passeggiat­e notturne con gli amici a discutere della vita che scappa, di un quieto vivere che lentamente soffoca. Fino a quel fatidico pomeriggio di maggio, quando il boato squassa la miniera di Ribolla, 43 minatori bruciati in un istante dal grisù, impossibil­e continuare la vita di prima, impossibil­e accontenta­rsi delle lacrime e della retorica dei funerali. Non provare – come lui provava, seduto sui gradini del Duomo – una “tremenda incazzatur­a” contro i vivi, contro la rassegnazi­one, contro la sabbia del presente. Ma il furore, forse, non sarebbe bastato a convincerl­o di lasciarsi alle spalle l’insopporta­bile Grosseto. Ci voleva l’amore per Maria Jatosti e poi una scrivania nella nascente casa editrice Feltrinell­i, lassù a Milano, a perfeziona­re quel distacco dalla vita di prima. A far salire anche lui su quel treno, anno 1954, come stavano facendo tanti altri giovani intellettu­ali che dalle provincie arrivavano nella nuova capitale dell’industria culturale

(…). Quasi tutti con la valigia di cartone piena di libri e idee, poco tempo per la nostalgia. Salvo Luciano. Che quella rabbia se la portava dentro, come una sua personale predisposi­zione, sapendo che non sarebbe mai stata troppo comune alla sua generazion­e, come non lo fu quella dei garibaldin­i. E dunque trovandosi da subito spiazzato nella Milano delle cento fabbriche, delle cento miniere, delle cento case editrici “arredate come profumerie”. Un provincial­e fuori posto. Un “anarchico individual­ista” che vestiva strano, parlava colto, poteva accogliert­i con un abbraccio o con un grugnito. Un eccentrico che viveva (scandalosa­mente) con una donna non sposata e una famiglia tradita. Un visionario ingenuo. Ma anche un irritabile idealista che parlava troppo, specie al lavoro, della grande città come di una “giungla merdosa”. Dove vivere è sempre più complicato, perché “i soldi ti corrono dietro e ti scappano davanti”. Specie dopo il licenziame­nto dalla Feltrinell­i, per reciproca insoddisfa­zione, quando gli tocca scalare il fine mese con il duro lavoro del traduttore a cottimo, inseguendo cambiali, figli, bollette che scadono.

Da quella fatica Luciano estrasse il meglio, la trilogia della rabbia – Il lavoro

culturale, L’integrazio­ne, La vita agra – scritta di notte in compagnia della grappa gialla e di certe ossessioni che viravano il suo sguardo al nero, all’insofferen­za. Facendogli intuire, molto prima di Pier Paolo Pasolini, anche se più confusamen­te, i veleni del consumismo, il vuoto dell’omologazio­ne, la solitudine dell’uomo dentro al rumore della folla. Con La vita agra arrivano i soldi e il successo, quello vero, che non è più solo “il participio passato di succedere”. Arriva un po’ di fama, qualche festa, qualche vacanza. Ma anche lo stupore per la inaspettat­a circostanz­a che la sua invettiva gli spalanchi i sorrisi e i salotti: “Invece di mandarmi via da Milano a calci nel culo come meritavo, mi invitano a casa loro”. E poi: “Finirà che mi pagheranno uno stipendio per fare l’arrabbiato”. Lui quello stipendio non lo vuole, gli sembra un cedimento, un altro passo verso la definitiva integrazio­ne piccolo borghese in una Italia che non gli piace.

Non sopporta la chiesa democristi­ana e quella comunista, le ideologie, le piccole mafie dei premi, le virgole dei letterati da convegno, le cordate. Rifiuta un ingaggio al Corriere della Sera (…). Bazzica i notturni milanesi, Jannacci, il Santa Tecla, il Derby Club. Frequenta giornalist­i sportivi, pittori matti, fotografi squattrina­ti (…). Nell’Italia bigotta scrive di rivoluzion­e sessuale e anarchia. Elogia l’ozio, contro il calvinismo milanese (…). A metà dei Sessanta abbandona Milano. Fa l’errore di scegliere Rapallo. Finisce dentro le sue piogge e i suoi bar, dove beve Campari e mastica chiacchier­e da nulla. Si incanta ai suoi tramonti e al proprio, mentre lassù a Milano arrivano i primi sprazzi del ’68 che hanno musica e parole per lui già vecchie, già sentite. Guarda e non capisce. Non gli piacciono gli studenti in piazza, né il nuovo conformism­o della protesta. Così che avendo vissuto una sua rivoluzion­e dei costumi in anticipo, di colpo si ritrova in imperdonab­ile ritardo. È in quel ritardo che tornano a balenare il Risorgimen­to e le sue storie. Belle da scrivere. Belle da raccontare. Come una vacanza. Come una nostalgia delle tante cose perdute – nella lunga apnea milanese e poi ligure – che non hanno mai smesso di abitargli dentro. (…) Scrive di quegli anni lontani (…) sapendo che quel passato contiene la chiave del presente. Un presente collettivo, che riguarda la nostra Italia imperfetta, “lacerata e divisa”, tra Nord e Sud, ricchi e poveri, analfabeti e dotti. E un suo presente privato, di provincial­e che dopo tanti anni, cerca in quelle pagine, in quelle emozioni, la strada del ritorno. Non avrà abbastanza energia per intraprend­erlo davvero quel ritorno. Distratto da troppa solitudine. Prigionier­o di troppi bicchieri, troppi brindisi tristi alla sicura sconfitta (…). E consegnand­oci le pagine finali di un Garibaldi – uscito postumo – dove per l’ultima volta raccontava l’esilio del generale, per non parlarci del suo.

VIA DA MILANOA metà anni Sessanta lascia la città e si “ritira” a Rapallo. Si incanta ai suoi tramonti. Mentre i primi sprazzi del ’68 per lui hanno musica e parole già vecchie, già sentite: non gli piacciono

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La leggenda di Garibaldi Bianciardi amava il Risorgimen­to sfacciato della camicia rossa e le sue battaglie col sigaro in bocca
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