Totti e veleni: basta la sua autobiografia e si scatena l’inferno
Totti è sempre Totti. Esce la sua biografia e uno storico dirigente si dimette. Risponde a una domanda sul futuro (“Potrei fare il presidente”) e l’intero assetto societario viene messo in discussione. Racconta un paio di aneddoti e personaggi presenti e passati del mondo del pallone sono di nuovo nell’occhio del ciclone. Ripercorrere la sua carriera significa rivivere anni della Capitale: “Roma è la mia storia”. Ma non tutti i ricordi sono piacevoli: oltre ai sorrisi e alle battute in romanesco, ci sono pure i veleni. Per il suo 42esimo compleanno Francesco Totti si è regalato il Colosseo, e un libro ( Un capitano, scritto con Paolo Condò, edito Rizzoli). È un grande evento editoriale, un’iniziativa benefica (il ricavato sarà devoluto all’ospedale pediatrico Bambino Gesù), l’occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Alla presentazione (super esclusiva: un centinaio di posti a sedere, si entra con invito personale) c’è spazio solo per chi gli ha voluto bene. I nemici, o falsi amici, restano fuori. Come Luciano Spalletti, l’allenatore che gli ha rovinato l’addio, ovviamente non invitato: l’allontanamento da Trigoria, gli insulti, la quasi rissa nello spogliatoio, tutte le anticipazioni più succulente lo riguardano.
DAL SUO RITIROè passato più di un anno ma i tifosi sono ancora assiepati davanti al monumento per cantare i suoi cori. Il clima è conciliante, non c’è nulla di rancoroso eppure basta una sua mezza frase per far tremare l’ambiente. Franco Baldini, braccio destro del patron James Pallotta (assente), se n’è andato perché accusato nel libro di essere stato tra i principali responsabili del suo addio. “È parola di capitano, non vedo come possa discuterla”. Nello stesso giorno ha lasciato anche l’amminist ratore delegato Umberto Gandini ( ma questa pare una coincidenza). “Pensa se parlassi per davvero”, scherza lui. Non è cambiato nulla, insomma. O quasi. La serata-evento è una via di mezzo fra il gladiatore e la grande bellezza. Sul palco c’è Luca Ward, voce di Massimo Decimo Meridio e narratore della serata. Come Jep Gambardella, invece, c’è l’imbarazzo della scelta, fra i tanti signori dei salotti romani seduti in platea. Al suo fianco Ilary in abito lungo verde acceso, non proprio sobrio. Lui in gessato e un po’ ingessato, nel ruolo di dirigente e ospite d’onore che gli sta stretto come la giacca sul petto di ex atleta. Da campione l’hanno trasformato in icona: gli invitati si mettono in coda per fargli auguri, salutarlo personalmente, farsi autografare una copia. La fila è lunga: il governatore Zingaretti e la sindaca Raggi (l’evento è anche passerella politica), l’immancabile Walter Veltroni, Giovanni Malagò che arriva a serata finita (era anche all’Auditorium per la festa di Morricone), la presidentessa Rossella Sensi, direttori, scrittori e giornalisti, il ct della Nazionale del 2006 Marcello Lippi, poi tanti ex compagni di squadra, “capitan futuro” De Rossi, Cassano, Candela, Materazzi. È la sua festa.
Quanta voglia abbia di festeggiare non è chiaro: gli manca il pallone e chi gliel’ha tolto non lo perdona. Ma pian piano ci sta facendo l’abitudine, e la serata scorre via piacevole tra aneddoti e battute. Il gran rifiuto al Real Madrid, gli esordi con Mazzone, le scappatelle dal ritiro, le notti mondiali, le botte a Balotelli, il lungo addio: tutto più o meno noto, già vissuto, solo da ricordare. Alla fine la frase più vera la dice Eusebio Di Francesco, allenatore (chissà per quanto ancora) della Roma: “Secondo me Francesco non ha ancora capito cosa vuole fare da grande”. Oggi c’è il derby e Totti non gioca più: il problema, in fondo, è sempre quello.