Il Fatto Quotidiano

La Juve vola, ma perde Marotta Roma, un calcio (di tacco) alla crisi?

I bianconeri battono il Napoli, un assist e un palo per Cristiano Ronaldo. Il derby della Capitale va ai gialloross­i

- » ROBERTO BECCANTINI

Tre a uno allo Stadium, 3-1 all’Olimpico: è stato il sabato di Juventus e Roma. E di Beppe Marotta: “Non sarò più l’amministra­tore delegato della Juventus. Le nostre strade si separano. Io presidente federale? Smentisco nella maniera più categorica”. Arrivò nel giugno del 2010. Organizzò la rinascita. Non sono dimissioni: sono ordini dall’alto. Detto della bomba, occupiamoc­i del resto. Se Di Francesco esce, ufficialme­nte, dal “d isgustato” del presidente Pallotta, Allegri ribalta Ancelotti e vola a più sei in classifica. Sette su sette. Calcio di stampo inglese, a Torino, con il Napoli che si alza benissimo dai blocchi: palo di Zielinski, gran gol di Mertens.

Ecco: il cazzotto sveglia Madama e Cristiano, soprattutt­o. Il migliore. Non segna ma è sempre lì, nel cuore delle trame che titillano il destino. Calibra l’assist per l’incornata di Mandzukic, coglie il palo che introduce il bis del croato e smarca, di sponda, Bonucci. Fatti, non parole. Il Napoli non esce ridimensio­nato. Gli è stato fatale, al 58’, il secondo giallo di Mario Rui anche se per un po’, paradossal­mente, in dieci sembrava la Juventus. Molle, sazia, distratta. È stato Szczesny a salvare il risultato (su Callejon) prima che Bonucci sigillasse la pratica. Insigne, Mertens (e poi Milik) hanno finito per sbattere contro gli armadi juventini. A molti tifosi (non tutti, per fortuna) non piace Mandzukic. Si fa un mazzo tanto e continua a distribuir­e gol, già quattro. È Cristiano che lo fa segnare, e non viceversa: calcio, mistero senza fine bello. E poi Matuidi, e poi Chiellini. Con Dybala sull’altalena, ma prezioso in occasione dell’azione del sorpasso. “Superficia­l”, così Ancelotti ha chiosato l’operato di Banti.

Resta la sentenza. Spietata. Eppure non esiste al mondo un campionato che possa già considerar­si “m o r to ” il 29 settembre.

Il derby di Roma diventa della Roma grazie a un panchinaro, Lorenzo Pellegrini. Sostituisc­e Pastore, infortunat­o, al 37’, spacca l’equilibrio di tacco, dopo un maxi-tamponamen­to tra Luiz Felipe, El Shaarawy e Strakosha; procura la punizione che, alla ripresa, spalanca la porta a Kolarov; pennella la parabola, sempre su punizione, che libera la sgrullata di Fazio. E tutto da trequartis­ta: il ruolo dell’argentino, non il suo.

Fazio, già. Proprio una sua papera aveva propiziato il pareggio di Immobile. Un Immobile lillipuzia­no, e comunque più tenace di Milinkovic-Savic e Luis Alberto, Parolo e Marusic. Perché sì, la Lazio si è aggiudicat­a il primo quarto d’ora e poi, piano piano, si è attorcigli­ata su se stes- sa. La Roma in crisi, altro non aspettava. Palla lunga (a Dzeko) e pedalare. Mentre Inzaghino era andato sul classico, Di Francesco aveva restaurato la fascia destra, con Santon terzino e Florenzi “ala”, scelta dalla quale la manovra ha ricavato più munizioni che turbolenze.

SUL PIANO delle occasioni, non c’è stata gara: Roma, per distacco. E la Lazio, beh, ogni volta che l’asticella sale, scende: Napoli, Juventus, Roma. Tre sconfitte. È un limite chiaro, che in un campionato di 20 squadre può essere nascosto dalle scialuppe del calendario, ma tale rimane.

Se il gol di tacco di Pellegrini è il terzo stagionale dopo i due di Pastore, Kolarov raggiunge “raggio di luna” Selmonsson, capace di marchiare un derby indifferen­temente con entrambe le maglie. Questa non è cronaca: è storia.

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