Le rivoluzioni del costume non sono brunch fighetti
Fatte le debite proporzioni e aggiornamenti, se la rivoluzione non è un pranzo di gala, #MeToo non è un brunch. In un anno ne abbiamo visti di eccessi, dalla protesta contro i nudi femminili esposti nei musei all’anatomia dell’avance, come se uomini e donne adulti e sani di mente non sapessero distinguere fra corteggiamento gradito e stalking molesto. Ma la storia dice che a ogni empowerment culturale femminile corrisponde una battaglia contro l’aggressività maschile, una pretesa di maggior rispetto, nei comportamenti e anche nelle parole. L’amor cortese e lo stilnovo, che hanno incivilito il Medioevo riscattandolo dai secoli bui, sono fioriti sotto l’egida e l’impulso di colte ed erudite castellane; le letteratissime dame del Seicento francese, denominate “preziose”, hanno raffinato i costumi e il vocabolario dei loro contemporanei, ancora rozzi e guerreschi. #MeToo, e perfino il politically correct, con tutte le sue ambiguità, a volte ridicole e involute quanto le tortuose perifrasi delle précieuses, stanno facendo la stessa cosa, in un’epoca in cui le donne leggono e studiano più degli uomini e scrivono quanto loro. E scatenano le stesse reazioni stizzite, denigratorie, a tratti isteriche, non solo fra gli uomini ma anche fra le donne – e mi ci metto anch’io: eh cavolo, censurare Balthus e Schiele!
DENUNCIARE una mano morta vent’anni dopo! Proprio perché sono d’accordo nella sostanza, vorrei che #MeToofosse sempre autoevidente, equilibrato, inattaccabile a critiche o a beffe, nell’era social più deleterie delle critiche. Ma le rivoluzioni del costume non sono brunch fighetti. Ci si macchia e si fanno briciole. A proposito: la prima in Occidente a usare la forchetta, nel XI secolo, fu la nobile moglie di un doge. Se gli sfottò e gli anatemi dei conservatori l’avessero scoraggiata, forse oggi mangeremmo ancora con le mani.