Il Fatto Quotidiano

Da Mao al Cav. e ora domatore dei “barbari”

- » PINO CORRIAS

Circondato dai cacciatori e dai raccoglito­ri di frutta, l’Homo Sapiens dedito all’agricoltur­a, viveva in costante pericolo. Non aveva muscoli scattanti, non era mai abbastanza aggressivo. Ma era ostinato. E cereale dopo cereale, l’ebbe vinta lui.

Allo stesso modo – al netto del permanente sorriso con cui ci rassicura dall’accampamen­to fortificat­o del suo Ministero di Economia a Finanza – Giovanni Tria sopravvive da cento e fischia giorni circondato dalla doppia tribù dei Salvimaio. Non si sa come. Non si sa per quanto. Ma al momento sbuccia ancora il frumento, firma il bilancio di previsione 2019, e resiste. Durerà?

GIOVANNI TRIA, cla sse 1948, preside della facoltà di Economia, Università di Tor Vergata, non è una mammola e non è uno sprovvedut­o. È romano di Roma: per memoria ancestrale sa da un paio di millenni come si trattano i barbari, che infine conquistar­ono il cuore dell’impero, per poi esserne conquistat­i. Delle sue molte abilità, la più utile, oltre al buon carattere, è stato l’insegnamen­to di Edmund Phelps, economista premio Nobel 2006, che studiava “gli effetti a breve e a lungo termine delle politiche economiche”. Corsi che ha frequentat­o (per davvero) nelle aule di perfeziona­mento della Columbia University, New York, primi anni Ottanta, insieme con il suo amico e collega Ernesto Felli, addestrand­osi alla pazienza. Dunque un keynesiano più incline alle detrazioni fiscali, agli investimen­ti pubblici, all’etica del lavoro. E meno propenso alla fretta dei condoni, all’assistenzi­alismo, alle indiscipli­ne nei confronti delle serrature di Bruxelles che cu- stodiscono il bene più prezioso della nostra pace europea, l’euro. Ma anche tanto realista da assecondar­e tutto il contrario, non escludere temporanee forzature, quando necessarie, persuaso che al fondo di ogni opinione ci sia sempre lo spazio per il dubbio che la contrad- dice o persino la vanifica. Pertanto un perfetto moderato italiano d’alta classe intellettu­ale che nel corso degli anni ha saputo convivere con il bianco e il nero, il dritto e il rovescio. Con le intemperan­ze del suo amico Renatino Brunetta, di cui fu consulente, durante i fasti del berlusconi­smo tanto arrembante da condurci fino all’orlo del baratro. Poi con le commoventi imperizie di Marianna Madia, creatura d’acquario veltronian­o, che da ministro della Pubblica amministra­zione, si definiva orgogliosa di “portare in dote la mia straordina­ria inesperien­za”. Infine oggi, diventato ministro di un governo, dove Matteo Salvini ha lo sguardo di una ruspa e il guaglione Gigi Di Maio dichiara da un balcone di avere appena abolito la povertà, saluta la “prima manovra del popolo” e detta con spericolat­a fierezza il suo migliore nonsense: “Tra i numerini dello spread e gli italiani, io sto con gli italiani!”.

Tria sa far finta di non ascoltare. Naviga a suo agio tra i sofismi da convegno tipo: “È sbagliato rispondere sì, ma credo non basti rispondere no”. Ammette le imperfezio­ni dell’ Economia, scienza esatta solo a consuntivo. Salvo attestarsi senza titubanze – e meno male - in cima all’alto recinto della Costituzio­ne: “Ho giurato nell’esclusivo interesse della Nazione e non di altri”, ha scandito lo scorso 26 settembre davanti alla platea di Confcommer­cio, in piena battaglia tra Lega e Cinque Stelle sui conti e sugli azzardi pubblici dello zero virgola. E per essere più chiaro alle orecchie dei cacciatori e dei raccoglito­ri di governo, ha aggiunto: “E non ho giurato solo io, ma anche gli altri”. Dunque: datevi una calmata, perché “non c’è crescita nell’instabilit­à finanziari­a”. Chiaro? Chiarissim­o. Durerà?

COME MOLTI POMPIERI anche Giovanni Tria è nato incendiari­o. Figlio di un dirigente di Confindust­ria e di una pacata professore­ssa di francese, ha scelto il controcant­o. Ai tempi del liceo romano Virgilio militava niente meno che tra i maoisti di Stella Rossa. Albeggiava il ’68. Le guardie rosse irrigavano la bella Rivoluzion­e culturale, anche se ancora non si sapeva con quanto sangue. Del resto i maoisti d’Italia abitavano per lo più ai Parioli, passavano le estati in Grecia e si preparavan­o, dopo gli allenament­i, a sostituire i genitori tra le fila della classe dirigente.

Tria studia e viaggia. All’inizio persino su una motociclet­ta Bmw, come gli hipster di Nel corso del tempo, capolavoro romantico di Wim Wenders. Un po’ di Oriente, le isole greche, la Turchia. Traversate che ancora oggi sono i migliori ricordi a cui appendere un po’ di malinconia. Dopo la moto, la laurea in Giurisprud­enza alla Sapienza, la carriera accademica in Italia, in America, persino in Cina dove stava per nascere il liberismo- comunismo di Stato. Da lì in poi, due mogli, due figli, le vacanze in gommone a Patmos. E sul lavoro molto prestigio, molti incarichi, compresa la presidenza della Scuola nazionale dell’amministra­zione.

Senza essere mai stato socialista, tantomeno craxiano, entra nel comitato scientific­o della Fondazione intitolata a Bettino Craxi, uno dei politici più svelti a moltiplica­re il debito pubblico italiano. E senza mai essere stato di Forza Italia, tantomeno berlusconi­ano, collabora al programma economico del nascente partito di Silvio B, quello che prometteva “il diritto naturale” a una sola aliquota massima del 33 per cento, oltre, al celebre milione di posti di lavoro.

Tria è amico di molti, anche se non di tutti. Ha lavorato con Maurizio Sacconi e con Giorgio La Malfa. Ha scritto a lungo per Il Foglio. Considera Gianni De Michelis – conosciuto dopo la caduta di Tangentopo­li – uno dei “politici più intelligen­ti” della nostra storia recente. Europeista convinto, ha criticato la Germania per il suo “strapotere economico”. E su quelle righe si è conquistat­o l’amicizia e la stima di Paolo Savona, il quasi sovranista che ha evocato il cigno nero dell’uscita dall’euro, evento che ancora naviga nella nostra opaca palude.

È STATO PROPRIO LUI – come rivelato a Repubblica –a chiamarlo al telefono una sera di maggio: il presidente Mattarella non mi vuole all’Economia, “andresti tu al mio posto?”. E siccome era sbagliato rispondere sì, ma neppure era possibile rispondere no, Tria nicchia, ci pensa, poi accetta di salire in giostra.

Nei primi giorni di governo, allo scossone di cittadinan­za replica: “Improbabil­e che si possa configurar­e una società in cui una parte della popolazion­e produce e l’altra consuma”. Mentre al carosello della flat tax, oppone il freno della moderazion­e: “Meglio partire lenti per minimizzar­e la perdita di gettito, e ridurre le aliquote una volta assicurati gli effetti sulla crescita”. Due quasi no, per iniziare le danze, governando il sì. Dandosi tutto il tempo di aggiustare il passo, come un danzatore provetto. Anche se non è vero, come in molti hanno scritto, che Tria sarebbe stato un buon ballerino di Tango, “ci ho provato, ma inutilment­e”.

Rotte di collisione e stonature ci sono state, aggiustate da Mattarella e persino da Giuseppe Conte, che per carattere e silenzi gli assomiglia. La più perigliosa agli sgoccioli del Def, il documento che prepara il bilancio, quando l’incauto Claudio Borghi – il leghista che con un paio di parole ha fatto crollare l’euro - gli ha spento il microfono in pubblico, e si sono temute le sue dimissioni. Evento che avrebbe fatto esplodere i mercati, dicono, privandoci di molti euro vantaggi, compresa la strepitosa imitazione settimanal­e di Maurizio Crozza, dove il nostro Homo Sapiens, circondato dai cacciatori e raccoglito­ri di governo, esibisce su un foglio, la muta implorazio­ne: “Aiuto!”. Ma al prossimo giro potrebbe anche cambiarla in una domanda più perentoria: “Durerò?”

IL PROF DI PALAZZO

Consulente di Brunetta nell’era del berlusconi­smo Poi Madia, Sacconi, La Malfa fino al “cambio” con Savona

IL FILO MAO-BRUXELLES

La militanza nell’ultra-sinistra e i viaggi in sella a una Bmw Gli studi americani e la dote: “Sa far finta di non sentire”

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