PRIMARIE PD: RENZI, IL CONVITATO DI PIETRA
Nelle ultime settimane, è stato un fiorire di candidature alla segreteria Pd testimoniali e improbabili. Concepite più che altro per marcare il territorio e prenotare una propria quota, una rendita di posizione da negoziare con il futuro vincitore. Ma chi può dare credito alle chance di candidature tipo Richetti, Boccia, Damiano? In verità, al momento, la sola candidatura reale è quella di Zingaretti. Pur privo di un esuberante carisma, il suo posizionamento, la sua piattaforma vantano una loro plausibilità: un Pd espressione di una sinistra di governo, che mette al centro la questione sociale e la lotta alle disuguaglianze, impegnata, in Italia e in Europa, a organizzare intorno a sé un largo campo di forze sociali e politiche alternativo alle destre. Con l’apertura a una interlocuzione dialettica con i 5 stelle, non equiparati sbrigativamente alla destra. Ora si dà per probabile la candidatura di Minniti, un nome più forte ma del quale si ignora la proposta politica, che non può esaurirsi nella questione migratoria.
Ci si chiede se sia il candidato di Renzi, come si evincerebbe dai suoi sponsor. Come ha osservato Prodi, sul Pd non si può far conto sinché l’or g an i g ra mma formale non corrisponde alla catena di comando sostanziale.
È Renzi il convitato di pietra. Piaccia o non piaccia, egli ancora pesa nel Pd. Di sicuro controlla i gruppi parlamentari. Pur sgradito alla grande maggioranza degli italiani, tuttavia egli gode del sostegno non solo del ceto politico che a lui deve la propria carriera, ma anche di una parte non piccola di elettori e di attivisti (direi di tifosi). La sua indole centrista e liberale (con qualche venatura populista, ascrivibile al suo istinto) lo fa decisamente altro e diverso da Zingaretti. Più plausibilmente e più utilmente, forse, egli potrebbe applicarsi a intercettare il consenso degli elettori che un tempo si riconoscevano in FI e che sarebbe cosa buona fossero sottratti all’Opa monopolistica di Salvini. Dubito che, in regime di proporzionale, le due prospettive possano convivere dentro un medesimo partito. Ma lo dovrà stabilire appunto il con- gresso. Esse potrebbero originare semmai un’alleanza tra soggetti distinti, entrambi alternativi a destra e populisti.
URGE COMUNQUEun chiarimento dentro un confronto congressuale nel quale le piattaforme e le relative candidature alla leadership mettano a tema idee e assetto con il quale disporsi alle elezioni europee. Esemplifico: un fronte largo e traversale (repubblicano) che, come usa dire facendola facile, vada da Macron a Tsipras; ovvero uno schieramento decisamente centrista che riproponga in sede europea la formula francese di En Marche; oppure ancora un’alleanza dei progressisti che faccia perno sull’asse dei socialisti europei e che non escluda poi forme di collaborazione con formazioni di centro ma che, nel passaggio elettorale, tenga ferma la distinzione e la competizione con esse e, a maggior ragione, con i Popolari, sempre più attestati su posizioni conservatrici condizionate dalla montante sfida sul loro versante di destra. Ipotesi diverse che riflettono e, insieme, retroagiscono sul profilo identitario del Pd, oggi incerto e dunque da ridefinire a ridosso di elezioni decisive per le sorti della Ue, ma anche per la configurazione del sistema politico italiano dopo lo tsunami del 4 marzo scorso. Un confronto aperto nel suo esito, disponibile a discutere laicamente persino lo scioglimento del partito o la separazione consensuale tra prospettive non componibili. L’opposto di primarie senza un vincitore che, a valle di esse, rimetterebbe la leadership all’accrocco tra capi bastone. Obiettivo che potrebbe celarsi dietro la proliferazione artificiosa dei candidati giusto perché nessuno consegua il quorum. Solo così si può archiviare l’irresponsabile “strategia dei pop corn”– stare alla finestra, contando sullo schianto della maggioranza gialloverde – per inaugurare una opposizione protesa all’alternativa. Che si misuri sul merito degli atti del governo, che avanzi proposte, che faccia leva sulle contraddizioni (profonde e visibili) che attraversano la maggioranza, che cerchi interlocutori e alleanze, che ponga fine all’isolamento del Pd dopo anni dominati dalla teoria e dalla pratica di una velleitaria autosufficienza. Giusto denunciare la contraddizione del centrodestra con il piede in due scarpe (Lega al governo, FI all’opposizione), sbagliato coltivare l’onanismo, rifiutarsi alle coalizioni, chiudersi nel ridotto del proprio calante 17%. Per mettere su un’alternativa minimamente competitiva il doppio non basta. Dunque, umiltà e ambizione. Due ingredienti palesemente negletti nel Pd del passato recente. Contraddistinto dalla presunzione (un deficit di umiltà) di bastare a se stesso e dalla rinuncia (un deficit di ambizione) a ricercare alleanze e collaborazioni. Ecco due virtù, due ingredienti essenziali alla futura guida del Pd.