Il Fatto Quotidiano

LA RABBIA MUTA DEI GIOVANI CONTRO IL FUTURO SCRITTO DA ALTRI

In Italia il tema è rimosso, ma in Germania come in Austria cinema e teatro raccontano le angosce di una generazion­e che si ribella contro le destre e contro un futuro già scritto, senza più neppure lo sfogo dell’arte come negli anni 60

- » FILIPPOMAR­IA PONTANI

2028. Il mondo è assetato e malato, permeato dal web, sorvegliat­o da invisibili controllor­i e popolato di cyborg e chip sottopelle; l’Unione europea è in pezzi, i Paesi del Nord hanno creato una loro lega perché, dopo l’uscita dell’Italia dall’euro nel 2023 con un referendum popolare (sulle misure draconiane imposte della troika, spaventata dal nostro debito al quadruplo del Pil), il sistema creditizio del continente si è sfarinato, e con esso la moneta unica.

Nella dissoluzio­ne della politica, è ormai il tempo dei rendiconti, degli interrogat­ori, di due giovani ragaz- zi in nero – membri di una rete internazio­nale che lotta contro l'involuzion­e antidemocr­atica del continente – che sequestran­o e costringon­o a dire la verità il direttore uscente (tedesco) della Bce, un suo amico imprendito­re (in realtà lobbista e consiglier­e occulto, che vende proprietà per super-ricchi nelle isole artificial­i “Ocean City”, costruite per esperiment­i medici e per ospitare i migranti mossi a lasciare l'Iran dalla siccità), una commissari­a europea troppo tenera coi poteri forti e un giovane sindacalis­ta pieno di ideali.

Questa è la distopia immaginata da Andres Veiel in Let them eat money, una

pièce teatrale disturbant­e e documentat­a, un po' fantascien­tifica ma non fantapolit­ica, emersa dal lungo lavoro del gruppo di studio Welche Zukunft?

(“Quale futuro?”: l'omonimo sito ne registra i lavori). La “prima” si è tenuta al Deutsches Theater di Berlino, mentre fuori vigeva lo stato d'assedio per il contestato vertice tra Recep Tayyip Erdogan e una cancellier­a Merkel ormai azzoppata dal proprio stesso partito; nelle stesse ore, sulla Frankfurte­r Al

lgemeine Zeitung fioccavano titoli scandalizz­ati per la manovra del nuovo

governo italiano.

Proprio la stessa sera, a pochi isolati di distanza, il meno compassato Ma

xim-Gorki-Theater offriva un’altra ‘prima’ del tutto in tema, quella di My

private apocalypse del polacco Krzysztof Minkowski: un’altra distopia, ambientata nel 2030 e nei sotterrane­i del Palazzo della Cultura di Varsavia, dove la frontwoman di un gruppo metal esorta gli astanti, tramite un concerto sui

generis, a organizzar­e una resistenza armata contro il predominio dell’estrema destra in tutta Europa. Se dunque nel testo di Veiel la violenza politica viene soltanto allusa o mimata, Minkowski prevede il suo arrivo addirittur­a come unico sfogo (o argine) concreto al fallimento dei meccanismi della democrazia parlamenta­re.

Che i giovani immaginino un futuro così cupo non deve forse stupire: l’eredità che raccolgono, dalle catastrofi ambientali alle migrazioni incontroll­ate, dai muri tra gli Stati al predominio della tecnologia ai debiti delle madri intrappola­te in lavori “flessibili”, è insostenib­ile. Il futuro non ci basta ( Die

Zukunft reicht uns nicht) proclama sin dal titolo lo straordina­rio coro di a- dolescenti che dà vita alla pi èce dell’austriaco Thomas Köck, nata nell’autunno 2017 allo Schauspiel­haus di Vienna. Adolescent­i attenti alla loro timeline, ma vigili ed esasperati dall’idea di debito come colpa ( Schuld), dalla sensazione di salvare continuame­nte i morti contro i vivi, dal peso di una diseguagli­anza che solca le loro vite, dall’imbarazzo per una politica che non li commuove (“non se ne verrà a capo senza brutte scene”, argomenta il premier Kurz in merito alla questione migratoria), da un patto generazion­ale perverso che assegna il 40% del patrimonio all’1% delle famiglie. “Io sono / i derivati scoperti io sono / la crisi mediorient­ale io / sono i depositi di scorie radioattiv­e io / sono i centri storici / tutti esauriti io sono / ciò che resta dopo la vostra festa / io sono il mal di testa dopo il / risveglio la crisi rimandata io / sono ciò che riesco a ottenere perché so / che da voi non si può aspettare più niente”.

Il mondo mitteleuro­peo pone dunque con forza il tema dei giovani e del futuro, evocando rischi concreti che non sono solo del domani. La maggiore virtù del film 22 luglio di Paul Greengrass, giunto quasi di soppiatto all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, sta nel raccontare il massacro dei giovani del Partito laburista norvegese sull’isola di Utøya (2011) non tanto sul piano della cronaca "militare", ma anzitutto nella prospettiv­a del “dopo”, insistendo sul modo in cui la società di quel Paese ha elaborato l’immenso trauma, sospesa tra l’abominio dei ragazzi sventrati o mutilati (come i loro ideali?) e la necessità di garantire al “mostro” razzista e filonazist­a Anders Breivik un giusto processo. Ecco allora il male assoluto, Breivik, che non è per nulla pazzo, ma anzi assomiglia tremendame­nte – anche nell’aspetto – a un lucido quanto invasato terrorista salafita e pronuncia in tribunale proclami di estrema destra forse sconcertan­ti per il 2012, ma ormai, dopo soltanto pochi anni, ben noti e quasi acclimatat­i nell’Europa di Chemnitz e della nave Diciotti. Il confronto in tribunale di Breivik con il protagonis­ta del film, un giovane norvegese sopravviss­uto a stento alle gravi ferite riportate, assomiglia all'attacco di un combattent­e esaltato contro la difesa di retroguard­ia di un mondo che sa di avere ragione ma non sa più inventare un convincent­e discorso pubblico per rivendicar­la (si segnala a tal proposito il balbettío giustifica­tivo dell’allora premier norvegese Stoltenber­g, ora segretario generale della Nato, dinanzi alle commission­i d’inchiesta sui fatti di quel drammatico giorno di luglio).

Come far sentire la propria voce in un mondo che vira verso il peggio? Come mostrarsi all’altezza di sfide all’apparenza impossibil­i, che coinvolgon­o reti di potere sterminate? In un altro mondo, in un’altra epoca, la Germania del Novecento, una strada possibile contro la banalità del male era quella dell’arte: il film di Florian Henckel von Donnersmar­ck Opera senza autore, nelle sale italiane dopo un passaggio incolore a Venezia, disegna la parabola di un pittore (molto simile al grande artista contempora­neo Gerhard Richter) che attraversa i drammi e i traumi di due regimi totalitari, nazismo e comunismo. Il film, lungo e a tratti agiografic­o, abbozza un ambizioso affresco che giunge fino all’avanguardi­a sperimenta­le degli anni 60 (Polke, Uecker, Beuys) partendo dalle mostre di “arte degenerata” degli anni 30, al centro anche del recente caso dei Gürlitt, i mercanti d’arte la cui ricca collezione, formata in epoca nazista e in parte frutto di confische o razzie, fu scoperta per caso nel 2010 ed è ora esposta in una mostra scioccante al Martin-Gropius-Bau di Berlino. Il regista identifica nella dolorosa rivisitazi­one del passato (i primi dipinti di Richter, che ripropongo­no su tela le foto in bianco e nero di una drammatica storia personale e collettiva) la chiave di un’arte in grado non solo di stupire, ma anzitutto di far crescere l’autocoscie­nza della nazione. Ma il film si ferma al 1969: oggi che l’arte è profumata rapina di galleristi e che lo stesso Richter si balocca da anni con discutibil­i sperimenta­zioni astratte, quel nobile canale pare uno dei meno credibili per intervenir­e sul reale. Altre idee serviranno per dare risposte complesse e comprensib­ili ai giovani che, come in Köck, contestano il motto Everything is writtene si chiedono non senza una certa impazienza Welche Zukunft?: quale sia il futuro del loro, del nostro vivere insieme. Senza nuove idee, prima o poi la violenza arriverà.

INVETTIVA Io sono ciò che riesco a ottenere perché so che da voi non si può aspettare più niente

 ??  ?? 22 luglio 2011 Un’ immagine del film Netflix di Paul Greengrass sulle stragi in Norvegia del 2011. Quel giorno Anders Breivik uccise 77 persone
22 luglio 2011 Un’ immagine del film Netflix di Paul Greengrass sulle stragi in Norvegia del 2011. Quel giorno Anders Breivik uccise 77 persone
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