LA RABBIA MUTA DEI GIOVANI CONTRO IL FUTURO SCRITTO DA ALTRI
In Italia il tema è rimosso, ma in Germania come in Austria cinema e teatro raccontano le angosce di una generazione che si ribella contro le destre e contro un futuro già scritto, senza più neppure lo sfogo dell’arte come negli anni 60
2028. Il mondo è assetato e malato, permeato dal web, sorvegliato da invisibili controllori e popolato di cyborg e chip sottopelle; l’Unione europea è in pezzi, i Paesi del Nord hanno creato una loro lega perché, dopo l’uscita dell’Italia dall’euro nel 2023 con un referendum popolare (sulle misure draconiane imposte della troika, spaventata dal nostro debito al quadruplo del Pil), il sistema creditizio del continente si è sfarinato, e con esso la moneta unica.
Nella dissoluzione della politica, è ormai il tempo dei rendiconti, degli interrogatori, di due giovani ragaz- zi in nero – membri di una rete internazionale che lotta contro l'involuzione antidemocratica del continente – che sequestrano e costringono a dire la verità il direttore uscente (tedesco) della Bce, un suo amico imprenditore (in realtà lobbista e consigliere occulto, che vende proprietà per super-ricchi nelle isole artificiali “Ocean City”, costruite per esperimenti medici e per ospitare i migranti mossi a lasciare l'Iran dalla siccità), una commissaria europea troppo tenera coi poteri forti e un giovane sindacalista pieno di ideali.
Questa è la distopia immaginata da Andres Veiel in Let them eat money, una
pièce teatrale disturbante e documentata, un po' fantascientifica ma non fantapolitica, emersa dal lungo lavoro del gruppo di studio Welche Zukunft?
(“Quale futuro?”: l'omonimo sito ne registra i lavori). La “prima” si è tenuta al Deutsches Theater di Berlino, mentre fuori vigeva lo stato d'assedio per il contestato vertice tra Recep Tayyip Erdogan e una cancelliera Merkel ormai azzoppata dal proprio stesso partito; nelle stesse ore, sulla Frankfurter Al
lgemeine Zeitung fioccavano titoli scandalizzati per la manovra del nuovo
governo italiano.
Proprio la stessa sera, a pochi isolati di distanza, il meno compassato Ma
xim-Gorki-Theater offriva un’altra ‘prima’ del tutto in tema, quella di My
private apocalypse del polacco Krzysztof Minkowski: un’altra distopia, ambientata nel 2030 e nei sotterranei del Palazzo della Cultura di Varsavia, dove la frontwoman di un gruppo metal esorta gli astanti, tramite un concerto sui
generis, a organizzare una resistenza armata contro il predominio dell’estrema destra in tutta Europa. Se dunque nel testo di Veiel la violenza politica viene soltanto allusa o mimata, Minkowski prevede il suo arrivo addirittura come unico sfogo (o argine) concreto al fallimento dei meccanismi della democrazia parlamentare.
Che i giovani immaginino un futuro così cupo non deve forse stupire: l’eredità che raccolgono, dalle catastrofi ambientali alle migrazioni incontrollate, dai muri tra gli Stati al predominio della tecnologia ai debiti delle madri intrappolate in lavori “flessibili”, è insostenibile. Il futuro non ci basta ( Die
Zukunft reicht uns nicht) proclama sin dal titolo lo straordinario coro di a- dolescenti che dà vita alla pi èce dell’austriaco Thomas Köck, nata nell’autunno 2017 allo Schauspielhaus di Vienna. Adolescenti attenti alla loro timeline, ma vigili ed esasperati dall’idea di debito come colpa ( Schuld), dalla sensazione di salvare continuamente i morti contro i vivi, dal peso di una diseguaglianza che solca le loro vite, dall’imbarazzo per una politica che non li commuove (“non se ne verrà a capo senza brutte scene”, argomenta il premier Kurz in merito alla questione migratoria), da un patto generazionale perverso che assegna il 40% del patrimonio all’1% delle famiglie. “Io sono / i derivati scoperti io sono / la crisi mediorientale io / sono i depositi di scorie radioattive io / sono i centri storici / tutti esauriti io sono / ciò che resta dopo la vostra festa / io sono il mal di testa dopo il / risveglio la crisi rimandata io / sono ciò che riesco a ottenere perché so / che da voi non si può aspettare più niente”.
Il mondo mitteleuropeo pone dunque con forza il tema dei giovani e del futuro, evocando rischi concreti che non sono solo del domani. La maggiore virtù del film 22 luglio di Paul Greengrass, giunto quasi di soppiatto all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, sta nel raccontare il massacro dei giovani del Partito laburista norvegese sull’isola di Utøya (2011) non tanto sul piano della cronaca "militare", ma anzitutto nella prospettiva del “dopo”, insistendo sul modo in cui la società di quel Paese ha elaborato l’immenso trauma, sospesa tra l’abominio dei ragazzi sventrati o mutilati (come i loro ideali?) e la necessità di garantire al “mostro” razzista e filonazista Anders Breivik un giusto processo. Ecco allora il male assoluto, Breivik, che non è per nulla pazzo, ma anzi assomiglia tremendamente – anche nell’aspetto – a un lucido quanto invasato terrorista salafita e pronuncia in tribunale proclami di estrema destra forse sconcertanti per il 2012, ma ormai, dopo soltanto pochi anni, ben noti e quasi acclimatati nell’Europa di Chemnitz e della nave Diciotti. Il confronto in tribunale di Breivik con il protagonista del film, un giovane norvegese sopravvissuto a stento alle gravi ferite riportate, assomiglia all'attacco di un combattente esaltato contro la difesa di retroguardia di un mondo che sa di avere ragione ma non sa più inventare un convincente discorso pubblico per rivendicarla (si segnala a tal proposito il balbettío giustificativo dell’allora premier norvegese Stoltenberg, ora segretario generale della Nato, dinanzi alle commissioni d’inchiesta sui fatti di quel drammatico giorno di luglio).
Come far sentire la propria voce in un mondo che vira verso il peggio? Come mostrarsi all’altezza di sfide all’apparenza impossibili, che coinvolgono reti di potere sterminate? In un altro mondo, in un’altra epoca, la Germania del Novecento, una strada possibile contro la banalità del male era quella dell’arte: il film di Florian Henckel von Donnersmarck Opera senza autore, nelle sale italiane dopo un passaggio incolore a Venezia, disegna la parabola di un pittore (molto simile al grande artista contemporaneo Gerhard Richter) che attraversa i drammi e i traumi di due regimi totalitari, nazismo e comunismo. Il film, lungo e a tratti agiografico, abbozza un ambizioso affresco che giunge fino all’avanguardia sperimentale degli anni 60 (Polke, Uecker, Beuys) partendo dalle mostre di “arte degenerata” degli anni 30, al centro anche del recente caso dei Gürlitt, i mercanti d’arte la cui ricca collezione, formata in epoca nazista e in parte frutto di confische o razzie, fu scoperta per caso nel 2010 ed è ora esposta in una mostra scioccante al Martin-Gropius-Bau di Berlino. Il regista identifica nella dolorosa rivisitazione del passato (i primi dipinti di Richter, che ripropongono su tela le foto in bianco e nero di una drammatica storia personale e collettiva) la chiave di un’arte in grado non solo di stupire, ma anzitutto di far crescere l’autocoscienza della nazione. Ma il film si ferma al 1969: oggi che l’arte è profumata rapina di galleristi e che lo stesso Richter si balocca da anni con discutibili sperimentazioni astratte, quel nobile canale pare uno dei meno credibili per intervenire sul reale. Altre idee serviranno per dare risposte complesse e comprensibili ai giovani che, come in Köck, contestano il motto Everything is writtene si chiedono non senza una certa impazienza Welche Zukunft?: quale sia il futuro del loro, del nostro vivere insieme. Senza nuove idee, prima o poi la violenza arriverà.
INVETTIVA Io sono ciò che riesco a ottenere perché so che da voi non si può aspettare più niente