I RISCHI DI UNA LIBIA “ALLA SOMALA”
La conferenza di Palermo e la difficoltà di dialogare con cento entità diverse
La conferenza di Palermo del 12 e 13 novembre sulla crisi libica è la prima iniziativa realmente politica messa in atto in quel martoriato Paese dopo il negoziato di Skhirat del 2015 che vide la nascita del governo Serraj riconosciuto dalle Nazioni Unite. Nei successivi tre anni in Italia la Libia è diventata una questione di politica interna: si è fatto di tutto (e parlato con chiunque) affinché i migranti fossero trattenuti nei centri di detenzione. Al di là di ogni questione morale, tale scelta si è trasformata in un boomerang: abbiamo offerto alle milizie libiche la possibilità di ricattarci. Si è accettato di trattare con personaggi equivoci e alle “loro” condizioni, mediante un opaco mercato e senza tener conto che esclusivamente una Libia riunificata avrebbe potuto davvero risolvere i problemi (nostri e loro). Tale gioco di scambi avrebbe potuto funzionare solo se inserito all’interno di una visione politica complessiva, cioè una pur lenta ricostruzione del l’unità nazionale libica. Da tale equivoco nascono le competizioni franco-italiane, corollario di un’assenza di progetto.
Ora finalmente si riparte. Sarà difficile ma non impossibile. Il dossier libico torna definitivamente alla Farne- sina, unica deputata - assieme alla presidenza del Consiglio - a fare la politica estera dell’Italia. Dagli Esteri si sono subito messi in movimento: si inizia dalla corona di Paesi che devono essere inclusi, cioè divenire parte della soluzione mentre fino ad ora erano assenti o – per alcuni – addirittura parte del problema. Sembra che saranno oltre 20 gli Stati presenti al più alto livello.
Palermo vuole continuare la via di Skhirat laddove essa si è interrotta a causa della faziosità libica. La guerra civile del 2014 ha intaccato lo spirito nazionale e frammentato il Paese, in Libia è scomparso lo spirito rivoluzionario che aveva animato e unito molti libici nella guerra contro Gheddafi. Da quel momento le varie parti ( oltre 100 tra milizie e gruppi) badano solo al proprio territorio. Non c’è quasi nessun responsabile libico che si preoccupi della riunificazione. Servono molte pressioni sui libici perché cambino mentalità. Senza tale impegno diplomatico la situazione di crisi potrebbe diventare permanente, come in Somalia. E l’Italia non può permettersi uno stato fallito a poche miglia nautiche da casa.
Per riuscire a convincere i libici, occorre cessare ogni competitività tra paesi coinvolti. Gli interessi di tutti devono essere presi in considerazione, confrontati e media-
Chi è Mario Giro è stato viceministro degli Esteri durante il governo Gentiloni Ha lavorato a lungo ai progetti africani della Comunità di Sant’Egidio
Al di là della questione morale, chiedendo il contenimento dei migranti abbiamo dato alle milizie modo di ricattarci: è stato un boomerang
ti, fino a giungere a un compromesso. Malgrado le schermaglie via media sui migranti, le riservate recenti visite diplomatiche in Francia hanno già ricucito le posizioni tra Roma e Parigi.
Manca ancora da capire quali saranno i rappresentanti libici invitati alla Conferenza. Non bastano Serraj e Haftar (i capi dei governi di Tripoli e Bengasi). Va tenuto conto di Zintan, di Misurata, degli ex gheddafiani (almeno alcuni di loro) e di altre correnti politiche; va tenuto conto del Fezzan con i Tebu, i Tuareg e gli Awlad Suleiman e altre tribù arabe meridionali; vanno incluse le grandi tribù nazionali come i Warfallah, i Magara o gli Zuwayya. Infine i rappresentanti delle due assemblee ostili, Tripoli e Tobruk, e della società civile.
Non sarà probabilmente possibile avere tutti gli attori libici auspicati subito assieme allo stesso tavolo, si dovrà avanzare per gradi. Da Palermo non ci si deve infatti attendere una soluzione definitiva ma la messa in moto di un processo virtuoso che avrà bisogno di altre tappe. La comunità internazionale ha già ben chiaro le difficoltà nell’operare un nation building senza fare un’altra guerra. Si tratta di una sfida che in Libia vede oggi l’Italia in un ruolo di leadership: fare sistema è indispensabile.
* L’autore è stato viceministro degli Esteri