Dalla Prima
Da mesi sfilano in Tribunale i testimoni dell’accusa e della difesa, per confermare o smentire la versione della sindaca che, se condannata, dovrebbe dimettersi: non per la legge Severino (che non prevede incompatibilità in caso di condanna per falso), ma al codice etico 5Stelle (dimissioni per tutte le condanne in primo grado, salvo reati colposi o di opinione). Abbiamo già scritto che quel codice è troppo severo e troppo lasco. Troppo severo perché, se non ci sono di mezzo tangenti, appalti truccati, abusi di potere, peculati, malversazioni di denaro pubblico o fatti ancor più gravi, ma – come in questo caso – una semplice dichiarazione, un sindaco deve proseguire fino a sentenza definitiva. Troppo lasco perché, in casi gravi per fatti già acclarati, le dimissioni devono scattare anche prima del rinvio a giudizio. Ma nel processo Raggi (unico sopravvissuto a un rosario di accuse infamanti, tutte farlocche e archiviate), nessun documento o testimonianza prova che la sindaca sia stata pilotata da Raffaele per promuovere Renato. Anzi, nei messaggi in chat, la Raggi gli ricorda di essersi opposta all’autocandidatura di Renato a comandante dei Vigili (prima fascia) per evitare conflitti d’interessi col fratello al Personale. E di averlo mandato al Turismo (terza fascia) su richiesta dell’assessore competente, che aveva lavorato bene con lui. Dopo la nomina, nell’ambito di un interpello per la rotazione di ben 190 dirigenti, la sindaca si lamenta con Raffaele per avere scoperto dai giornali che Renato avrebbe guadagnato 20 mila euro annui in più (“Questa cosa mi mette in difficoltà, me lo dovevi dire”), convinta che lo stipendio restasse invariato da quando “avevamo detto che restava dov’era con Adriano (Meloni, ndr)”. Dunque fu lei a deciderne il ruolo, non Raffaele. È dalle chat con vari dirigenti che si scopre come Raffaele si attivò con loro per la nomina del fratello. Ma che abbia sollecitato la sindaca non lo dice nessuno e non risulta da nessuna parte. Dunque non si capisce neppure perché la Raggi sia imputata.
L’altroieri la poliziotta ha dichiarato in aula che “nella procedura di interpello Marra ha avuto un ruolo attivo e sostanziale e non meramente compilativo”. Una testimonianza neutra, che riguarda l’intera rotazione dei 190 dirigenti, e non inficia minimamente la versione della Raggi: che risponde di quel che ha fatto e saputo lei, non di ciò che faceva Marra con altri. Ma il titolo di R ep ubb li ca mette in bocca all’agente una cosa che non ha mai detto: “Marra nominò suo fratello”, per poter aggiungere: “Altro colpo alla difesa di Raggi”. Invece non è né un “colpo” né un “altro”, visto che nessuno ha mai smentito la sindaca. Con buona pace del Corriere, secondo cui la poliziotta “contraddice la linea difensiva della sindaca” (invece non contraddice un bel nulla). Il Messaggerodedica un’intera pagina a questa sensazionale notizia: “Nomine, decideva Marra”. Oh bella, e chi doveva deciderle, se non il capo del Personale? Un usciere? Un netturbino? Un turista giapponese? Un gabbiano? Ecco cosa rischia chi confonde l’informazione con la curva Sud: il ridicolo.