Insegnanti “locali” e materie ad hoc: è scuola regionale
nanze, il governatore chiede al governo più autonomia e più risorse per adeguare l'offerta. “È una nostra eccellenza, vogliamo più medici e infermieri anche per far fronte alla crescente domanda”, ha spiegato ieri. Non solo medici e infermieri: anche insegnanti, impiegati, dirigenti e funzionari di Equitalia, vigili del fuoco, ingegneri delle dighe sono le figure che la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna, chiedono al governo di regionalizzare. Ieri infatti è caduto l’anniversario del referendum per l’autonomia grazie al quale oggi la parte più ricca del Paese avanza in modo ultimativo le sue richieste. “È la secessione dei ricchi”, spiega da mesi l'economista Gianfranco Viesti, primo firmatario di una petizione ( finora ha raccolto 13mila firme) che fa appello al Parlamento di non sottoscrivere un accordo che formalizzerebbe la nascita di due Italie. “Via ogni solidarietà e perequazione, come la Costituzione obbliga finora, per far posto alla divisione delle risorse non solo in ragione delle esigenze (quanti ospedali per quanti ammalati, quante scuole per quanti studenti) ma anche del gettito fiscale pro capite”.
IN QUESTO cortocircuito cognitivo il senso del primo e più acuto paradosso: per affrontare il turismo sanitario, questa inesorabile e costosa transumanza dal sud verso il nord, la Lombardia chiede più risorse che il governo dovrà prendere dalla solita borsa. Più risorse alla Lombardia significherà meno risorse alla Calabria, una delle stazioni di partenza di questi turisti del dolore.
Scambiando causa ed effetto, si capovolge così il problema e si raddoppia la punizione per chi nasce sotto il Garigliano. La trattativa col governo, il cui azionista di maggioranza, Luigi Di Maio, è di Pomigliano d’Arco, tra le aree più indebolite dal transito sanitario, è a buon punto. Tra qualche settimana – salvo novità dell’ultima ora – il Parlamento dovrà solo ratificare col suo sigillo.
Insegnanti “regionali”, niente trasferimenti, programmi personalizzati, persino gli uffici propri: Veneto e Lombardia si fanno la loro scuola. La riforma della cosiddetta autonomia differenziata sarà una vera e propria rivoluzione per il mondo dell’istruzione. I testi che ieri i governatori Zaia e Fontana hanno inviato alla ministra per gli Affari regionali, Erika Stefani, non sono definitivi: serve l’ok del governo (e la ratifica del parlamento), ci sono ancora le riserve di qualche ministero da sciogliere. Fra questi, però, non dovrebbe esserci quello guidato da Marco Bussetti.
NON PIÙ UNA SOLA scuola italiana, dunque, ma tante scuole regionali: questo significa portare fuori dal sistema nazionale quasi 200 mila cattedre (almeno un quarto del totale, tanto valgono Lombardia e Veneto da sole). Il rischio che è ci sia un’istruzione di Serie A, B e magari anche C, a seconda della latitudine. Con l’autonomia differenziata ognuno ha le sue richieste ma in materia di istruzione quelle di Veneto e Lombardia sono simili: la principale è trasformare l’insegnante da dipendente statale in regionale.
La prima conseguenza riguarda i concorsi: la Regione potrà bandirli da sola, senza aspettare i tempi del Miur (e quindi le sue graduatorie). Al Nord storicamente c’è carenza di personale, perché la maggior parte dei docenti viene dal Sud (e diversi chiedono il trasferimento): in Veneto, ad esempio, mancano 9 mila insegnanti di sostegno, che non sono arrivati nemmeno dopo le ultime infornate; in futuro la Regione quantificherà il fabbisogno e provvederà.
La seconda conseguenza è per la mobilità: i docenti saranno assunti dalla Regione e dunque potranno spostarsi soltanto al suo interno. All’esterno non sarà del tutto vietato, ma diventerà come chiedere il trasferimento presso un’altra amministrazione pubblica, quindi più difficile. Varrà per i neoassunti: per i docenti già in cattedra sarà possibile scegliere se restare in servizio al Miur o passare alla Regione.
L’inquadramento di maestri e professori è la novità più forte (e su cui resta qualche perplessità ministeriale), ma non l’unica: anche i programmi di studio saranno personalizzati. Zaia ha già firmato un accordo col Miur che prevede l’insegnamento di storia e cultura veneta (nei corsi esistenti), dalle elementari alle superiori; in Lombardia, invece, gli istituti tecnici (i cosiddetti Its) verranno assorbiti all’interno dei percorsi di istruzione e formazione professionale (uno dei vanti della Regione).
Tutto dipende dai soldi: una quantificazione delle risorse da trasferire dallo Stato alle Regioni ancora non c’è, si approfondirà dopo la firma. E sarà la parte più difficile dell’accordo: bisogna trovare un compromesso tra il valore della spesa storica e la richiesta dell’introduzione del costo standard (troppo penalizzante per il Sud). Ancora più complicata la trattativa per l’università: sembra esclusa l’ipotesi del passaggio del Fondo di funzionamento ordinario (FFO) che dovrebbe restare al Miur, le Regioni si accontenterebbero del diritto allo studio.
LE PRIMEindiscrezioni sulla riforma, dunque, raccontano di una svolta epocale. Positiva, secondo Elena Donazzan, assessore all’Istruzione del Veneto in prima fila nella riforma: “L’organizzazione militare centrale non è in grado di gestire le esigenze della scuola. Affidarle al territorio è l’unica soluzione”. Anche Stefano Bruno Galli, assessore lombardo all’autonomia, è fiducioso: “Chi ha dimostrato un alto rendimento istituzionale merita di essere autonomo: così lo Stato potrà occuparsi meglio delle altre Regioni che sono più indietro”. Tutto perfetto. Al Nord, però, sono anche convinti che alla fine del percorso si ritroveranno con più soldi, da spendere meglio (e magari pagare di più i propri docenti, un’altra ipotesi allo studio). Se sarà così, qualche altra Regione ci avrà rimesso.
L’organizzazione militare centrale non è in grado di gestire le esigenze della scuola Affidarle al territorio è l’unica soluzione
DONAZZAN (VENETO)