Da “me ne frego” a “400”: facciamoci del male
Tria e Conte agitano il drappo rosso davanti ai mercati: “Così non reggiamo a lungo”
Qualche
giorno fa era tutto “me ne frego”, oggi siamo al parliamone, vediamo, monitoriamo: lieve, ma decisa la slavina lessicale di ampi settori del governo su spread e dintorni. Le precisazioni successive e alcune chiacchiere informali ci inducono a pensare non si tratti di una nuova strategia comunicativa, né dell’involontario emergere a coscienza di informazioni sconosciute alla massa, quanto di vecchio, caro autolesionismo, forse non disgiunto da una certa dose di dilettantismo nel gestire un sistema dei media in larga parte ostile.
AVEVA INIZIATO martedì sera, regalando un dolce sapore di complottismo al tutto, l’uomo di mano della Lega, Giancarlo Giorgetti, gaddianamente ubiquo ai casi e ai poteri: “Se continua la dinamica dello spread e va verso quota 400 in automatico gli attivi delle banche vanno in sofferenza quindi serve ricapitalizzare. Noi non siamo figli di nessuno, sappiamo esattamente come stanno le cose”. Giorgetti ha, in sostanza, ridato vita a una frase dal sen fuggita a Paolo Savona, peraltro sulla stessa poltrona di Porta a Porta da cui parlava il sottosegretario: il 9 ottobre, dopo aver citato la fatidica “quota 400”, il ministro degli Affari Ue aveva messo la ciliegina sulla torta con la frase “se lo spread ci sfugge di mano dovremo cambiare la manovra”. Un po’ come agitare il drappo rosso davanti al toro, tanto più che 400 punti non risulta essere una soglia critica per le banche italiane: forse la sola Mps, tra le maggiori, potrebbe avere problemi, ma si tratta di un caso assai particolare, non da ultimo perché è in mano pubblica.
Ancora da Bruno Vespa, la cui autorevolezza evidentemente intimorisce i gialloverdi, mercoledì è stato il ministro dell’Economia Giovanni Tria ad abbandonarsi a pericolose metafore: lo spread a 320 “non è la febbre a 40, ma neanche a 37” ed è chiaro che sia “un livello che non possiamo tenere troppo a lungo”. Il che è forse un’ovvietà, di sicuro un’azzardata ammissione di debolezza mentre si gioca a un affollato tavolo da poker con Commissione Ue, Banca centrale e mercati. Sul sistema del credito, però, Tria s’è mostrato più cauto: ha ammesso che uno spread più alto “pone un problema”, ma “gli stress test ci saranno il prossimo mese: là si vedrà la situazione”.
Poteva mancare Giuseppe Conte? No, e infatti il premier ha pensato di affidare il suo pensiero a un colloquio con Repubblica e Stampa: “Se lo spread sale, o se comunque si mantiene alto a questo punto, è un problema, quindi dobbiamo augurarci che scenda. Abbassiamo tutti i toni”.
NEL POMERIGGIO di ieri, poi, Conte ha provato a tornare un po’ indietro con una non del tutto riuscita, diciamo, imitazione del Robert Kennedy contro il Pil (“adesso sembra che lo spread sia diventato l’elemento centrale della nostra vita”), ma ormai il messaggio - che, per la proprietà transitiva, è il medium- era passato e tutto si è messo in fila. Anche una quasi innocua frase di Matteo Salvini: “Se lo spread segue l’economia reale scenderà inevitabilmente”, poi “se qualche impresa o qualche banca avrà bisogno, noi ci siamo.”
Buon ultimo, arrivò Luigi Di Maio: una ricapitalizzazione delle banche “può avvenire in tanti modi, in questo momento posso dire che è tutto sotto controllo”. Domani è un altro giorno, si vedrà, avrebbe aggiunto Ornella Vanoni. La lunga catena di scelte politiche e normative che ci ha condotto fino all’autunno del Quantitative easing, cioè al momento che precede quello in cui avremo mani e piedi legati, è stata certo una straordinaria sequela di autogol: tentare di far meglio è un’impresa, però ci si può sempre provare.
Se lo spread va a quota 400 gli attivi delle banche vanno in sofferenza e servono capitali
GIANCARLO GIORGETTI