Dominique ieri avrebbe festeggiato, se fosse stata qui
Se Dominique Velati, l’infermiera di Borgomanero che decise di andare a morire in Svizzera (e di cui Il Fattoieri ha pubblicato le ultime parole, ndr), non si fosse ammalata di quel mostro che le aveva diffuso metastasi ovunque, e che l’ha portata via tre anni fa, ieri ci sarebbe stata anche lei in piazza Montecitorio per festeggiare la decisione storica della Corte costituzionale. Al fianco dei suoi compagni di una vita. Già, perché prima di essere nota alle cronache per aver deciso di anticipare la sua fine in una fredda clinica in Svizzera, Dominique Velati era un’attivista, una militante radicale della prima ora, del nucleo duro dei piemontesi. Ed era pure un’infermiera da anni al fianco dei malati terminali.
Quando si è ritrovata a essere una di loro, ha preso due decisioni. La prima, quella di porre fine alla sua vita, per evitare a se stessa sofferenze indicibili. La seconda, di rendere pubblica la sua scelta, non prima, però, che fosse morta. Perché non voleva che niente e nessuno ostacolasse la sua scelta. Una volta avuta la certezza che il suo volere si sarebbe realizzato, era tranquilla e in pace. Come forse non lo era mai stata prima nella vita. Una pace che aleggiava nella sua casa quando l’ho conosciuta, la sera prima di partire per la Svizzera, e l’ho intervistata per Servizio Pubblico di Michele Santoro. Il giorno avevo pianto ininterrottamente. L’idea di conoscere una persona che poche ore dopo sarebbe partita per andare a morire mi aveva totalmente destabilizzato. Lei mi accoglie, con il sorriso e la consapevolezza di chi vede materializzarsi la propria volontà: tutte le mie paure svaniscono. Talmente era lucida, Dominique, che qualche giorno prima di partire per il suo ultimo viaggio aveva persino organizzato una grande festa, insieme agli amici e parenti.
DOMINIQUE AVEVA RESO la sua morte un atto politico, come Fabo, come Loris Bertocco, come tanti altri. “Marco Cappato mi ha pagato il biglietto del treno”, aveva tenuto a precisarmi lei. Poca cosa, rispetto alle migliaia di euro che aveva dovuto sborsare per l’eutanasia. Ma che ha permesso poi al leader radicale di andare in questura ad autodenunciarsi per averla aiutata a suicidarsi. Come ha fatto per tanti altri casi, oltre a quello di dj Fabo che è finito fino alla Corte costituzionale. Cappato si è dovuto presentare insieme a Mina Welby davanti alla Corte d’assise di Massa perché è sotto processo per aver aiutato Davide Trentini, un malato di sla, a fare l’eutanasia in Svizzera. Secondo l’associazione Luca Coscioni, di cui Cappato è tesoriere, sarebbero più di trecento gli italiani che valicano il confine ogni anno per mettere fine alle proprie sofferenze. Praticamente uno al giorno. Fosse anche solo uno, lo Stato ha il dovere di porsi il problema. E il Parlamento, come ha indicato la Consulta, di colmare il vuoto legislativo relativo. Il torto maggiore che si può fare nei confronti di chi è malato, costretto in un corpo che è diventato una prigione di agonia e dolore, è far cadere nel vuoto il loro appello alla libertà. Ed è forse proprio per i tanti appelli che si sono succeduti negli anni, il primo quello di Piergiorgio Welby rivolto a Giorgio Napolitano nel 2006, che oggi la maggioranza degli italiani, stando a quanto dicono i sondaggi, è favorevole all’eutanasia: l’ultimo è quello pubblicato sul Gazzettino che riporta come il 67% degli elettori della Lega Nord sia d’accordo sulla legalizzazione dell’eutanasia. Diventa difficile, per le forze politiche, girare la testa dall’altra parte.
Direbbe Dominique, parliamone, parliamone, parliamone. Parliamo della libertà che ognuno di noi ha di scegliere della propria vita, perché questa ci appartiene. Come anche la morte.