Ovvio, tutta colpa di Desirée
Come far sparire lo stupro e condannarla
Ci
sono frasi, insinuazioni, ricostruzioni che fanno male ai morti e fanno male ai vivi. Fanno male ai morti perché sono ingiuste e male ai vivi perché sono false. Desirée Mariottini non è morta perché era drogata e trascurata dalla famiglia, ma perché qualcuno l’ha stuprata e poi uccisa. O forse – secondo la versione più gentile – perché lasciata mo- rire, dopo aver provato a rianimarla con un po’di acqua e zucchero, come se avesse avuto un calo di pressione sotto al sole d’agosto. Chi scomoda la droga e il presunto allarme sociale della serie “signora mia, questi giovani d’oggi”, chi come Mughini a Domenica in afferma “Si drogava, era nata e cresciuta in un reame di droga, dove non puoi trovare carmelitani scalzi”.
“Era predestinata perché con una vita così e una famiglia così difficilmente avrebbe potuto fare una fine diversa”, chi come Gad Lerner sottolinea che “era dipendente da eroina, figlia di spacciatore italiano e madre quindicenne”, sta inquinando una verità ben più limpida.
DESIRÉE, DALLA DROGA sarebbe potuta uscire. È da quello stabile che non è stata lasciata uscire. Non era una predestinata. Aveva sedici anni e una vita difficile, scappava dal Sert, rifiutava l’aiuto dei genitori che erano sgangherati forse, che erano confusi e destabilizzati, forse, ma che ad aiutarla ci avevano provato eccome. Desirée aveva una vita per riscattarsi. Aveva un futuro che non era affatto scritto o se- gnato, perché dalla droga per fortuna spesso di esce e di droga, signora mia, si muore infinitamente meno che in passato. Nel 1996, in Italia, ci sono state 1600 morti per overdose. Nel 2016 “solo” 266. Si muore più di fumo e di alcool, si muore di più attraversando la strada, travolti da un’automobile. Non occorre essere salviniani, invocare ruspe, portare rose bianche, per risparmiare ai genitori di questa ragazza il peso della colpa.
Certo, Desirée viveva in un contesto familiare complicato, era una ribelle, una che non aveva il senso del pericolo che stava correndo, ma a Desirée la droga l’hanno data degli adulti. L’hanno stuprata degli adulti. L’hanno lasciata morire degli adulti. Non una dose. Come Cucchi, del resto, che sì, era un drogato pure lui, ma non è morto per un buco. È morto per le botte dei carabinieri. Per l’indifferenza di chi doveva curarlo e l’ha abbandonato al suo destino. Come Manuel Careddu, il ragazzo sardo ammazzato dai suoi amici per un debito di droga. “Troppo facile chiamarli mostri. È la droga che annienta i nostri ragazzi”, ha commentato uno psicoterapeuta, a cui era stato chiesto cosa ne pensasse dell’omicidio in Sardegna. Invece no. Manuel non l’ha annientato la droga, ma il piano crudele e ben architettato dei suoi amici che l’hanno ammazzato a picconate e seppellito come un cane, in un campo.
CHISSÀ perché poi, quando qualcuno che si drogava muore ammazzato c’è sempre questo sottotesto odioso per il quale la causa va sempre cercata lì, nella droga, nella famiglia che non c’è stata abbastanza, nella mamma che era debole, nel papà che era uno spacciatore, nella sorella che lo aveva allontanato, pure se la droga non c’entra nulla e non si è morti di overdose. C’è uno stigma, una disapprovazione sociale su chi si droga più o meno consapevole, che confonde sempre le responsabilità, quando muore un drogato. Ho sentito perfino dire che“Desirée” come“Pamela ”( Mastropietro) sono già nomi che lasciano intendere una certa provenienza sociale, un ambiente disagiato, e tra le scemenze più recenti questa è quella che svetta di gran lunga sulle altre (è più frequente che i soldi per certi vizi li abbiano le Ginevra e Ludovica, per giunta). Ma non è l’ unica. E le fanno compagnia, naturalmente, le strumentalizzazioni. Perché Desirée, Cucchi, Manuel erano tutti legati al mondo della droga, tutti “se la sono un po’ cer- cata, signora mia”, ma l’unico dei tre per cui nessun politico ha preso un aereo, ha comprato un fiore, ha scomodato una parola è Manuel Careddu. Non c’era un carabiniere, non c’era un nero dietro la sua morte. C’era solo un gruppo di ragazzi, tutti studenti, tutti italiani, tutti insospettabili. Tutti poco adatti a uno slogan e a un proclama di quelli fatti in camera, col social media manager pronto a twittare.
Gli altri casi Vale anche per Cucchi e per il caso Mureddu, ammazzato da insospettabili giovani italiani