Il Fatto Quotidiano

PROCESSI LUNGHI, UN SISTEMA FATTO APPOSTA PER I COLPEVOLI

- » PETER GOMEZ

Se Stefano Ceccanti, oltre che a essere un costituzio­nalista e un deputato del Pd, frequentas­se abitualmen­te qualche tribunale, due giorni fa si sarebbe morso la lingua prima di parlare. Sconvolto dalla riforma della prescrizio­ne proposta dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, Ceccanti, al pari dei suoi colleghi di Forza Italia, mercoledì ha accusato il Guardasigi­lli di voler introdurre “norme anticostit­uzionali da Stato di Polizia”. E ha argomentat­o la sua protesta con un ragionamen­to fatto proprio da molti esponenti della Lega. Cioè da quei parlamenta­ri salviniani che ora si dichiarano “perplessi”, senza invece aver mai battuto ciglio davanti alle migliaia di dibattimen­ti cancellati dal trascorrer­e del tempo.

Secondo Ceccanti non si può bloccare il decorso della prescrizio­ne dopo il primo grado di giudizio perché l’articolo 111 della Costituzio­ne stabilisce che i processi abbiano “una ragionevol­e durata”. Per lui, se a partire dalla prima sentenza non si prescrives­se più nulla, i dibattimen­ti d’appello e in Cassazione diventereb­bero infiniti. Il suo ragionamen­to suona bene, ma è falso. Il motivo principale per cui i processi durano tanto a lungo è infatti semplice: ne vengono celebrati troppi. Anche se Ceccanti e i suoi colleghi non se ne sono accorti, in Italia è in vigore dal 1989 un sistema accusatori­o: il nuovo Codice di procedura penale prevede cioè che la prova si formi in aula. Per questo vengono ascoltati decine e decine di testimoni, molte delle indagini dei pm vengono ripetute davanti al giudice. Questa è una buona cosa per il cittadino imputato che così riduce di molto il rischio di venir condannato da innocente. Ma ovviamente i processi così celebrati durano mesi o anni e i tribunali si intasano.

CHI AVEVA SCRITTO il nuovo Codice sapeva bene di andare incontro al rischio ingolfamen­to. E infatti aveva previsto che di dibattimen­ti in aula se ne facessero pochissimi: come accade negli Usa dove l’85 per cento degli imputati, quando le prove contro di loro sono forti, si dichiarano colpevoli e patteggian­o la condanna ottenendo degli sconti di pena. O in Inghilterr­a, dove addirittur­a solo il 10 per cento delle persone sotto inchiesta arriva al processo. Negli Usa, però, la prescrizio­ne smette di decorrere dal momento del rinvio a giudizio (in Inghilterr­a addirittur­a non esiste) e la pena è effettiva. Se ti condannano a 3 anni vai in prigione, punto e basta. In Italia accade l’esatto contrario. Da una parte, se l’imputato è incensurat­o ha probabilit­à quasi nulle di scontare in carcere una condanna sotto i 4 anni. Dall’altra, la prescrizio­ne continua a correre in primo, secondo e terzo grado. Risultato: a quasi tutti conviene andare davanti al giudice e tirarla il più possibile per le lunghe. Se va bene, tutto viene cancellato dal passare del tempo. Se va male si arriverà a un verdetto in gran parte virtuale (e per questo è necessario che ora il governo renda effettive le pene). Il patteggiam­ento e il rito abbreviato, insomma, da noi convengono poco e i processi si paralizzan­o. Al danno poi si aggiunge pure la beffa. Lo Stato spende un sacco di soldi, tra indagini e stipendi di magistrati e poliziotti, per individuar­e un imputato. Ma tutto quel denaro, grazie alla prescrizio­ne che oggi può scattare a processo in corso, viene poi perso senza riuscire alla fine a stabilire se chi è finito alla sbarra è colpevole o innocente. Con grave smacco di noi contribuen­ti e soprattutt­o delle vittime dei reati. Che in Italia, per fortuna, restano ancora molto più numerose di chi li commette.

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